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tornata del 16 aprile
Prima del 1715 Vittorio Amedeo si chiamava secondo; ma, appena giunto in Sicilia, il suo numero scompare, nè più ricompare anche dopo perduta la Sicilia, perchè egli riceve il compenso della Sardegna. Sulla terra del re Enzo egli sa di esser primo e non secondo, e quindi dimentica la numerazione del ducato di Savoia per essere primo di Sardegna.
Carlo Emanuele III, che succede ad Amedeo II, e che regna per 45 anni, si trova pure senza numero, sia nelle intestazioni, sia nelle medaglie, perchè egli pure è primo nella regia isola lasciatagli dal padre. Per la stessa ragione Vittorio Amedeo III regna alla volta sua senza numero, che solo riproduce nelle medaglie, perchè queste sono cose di famiglia e non dello Stato.
Da ultimo giunge Carlo Emanuele IV, e se il numero ricompare nelle medaglie, ed anche nelle monete, non si vede però nelle intestazioni, ed i re successivi Vittorio Emanuele, Carlo Felice e Carlo Alberto sono egualmente primi in Savoia ed in Sardegna.
Se, prendendo la Sardegna, i duchi di Savoia avessero mantenuta l’antica numerazione sarebbero ancora scusati, perchè avrebbero seguita la legge generale che impone di mutar nome solo quando si passa da uno Stato minore ad uno Stato maggiore.
Partendo dallo Stato maggiore del Piemonte e della Savoia, che contenevano circa due milioni di abitanti, per giungere alla Sardegna, che forse non ne conteneva 500000, i successori di Beroldo rimanevano, per così dire, sulla loro propria base; ma che dire di voi, signori, che avete per l’Italia intera minor rispetto che ne avesse Vittorio Amedeo II per la Sicilia o per la Sardegna? Di qual tradizione, di qual casa siete voi ministri?
Lo vedete, o signori, io mi limito a combattere per un numero; ridotto allo stato di antiquario, vi chiedo di sopprimere una cifra; se volete dirmi mosso da spirito di partito, confesserei che la mia è sfumatura di opposizione, e che meno di così non si può farvi opposizione. (Si ride) Ma, signori, il vostro numero sarà letto da tutti i popoli, e se considerate come vane sottigliezze i miei riflessi, molti chiederanno se non si riducono a sottigliezze e l’indipendenza italiana e il regno d’Italia; molti vi domanderanno in che consiste l’indipendenza della moltitudine che non ha diritto di votare, nè di deliberare, o in che consiste la felicità degli elettori che hanno il diritto di mandare un deputato al Parlamento.
Ma lasciamo il presente per rimanere fedeli al passato; il torto più grave dell’intestazione proposta sarà di essere letteralmente accettata. Benché le intenzioni dei signori ministri siano innocenti, il battesimo che danno al regno contiene un errore, e ogni sbaglio, una volta ridotto a iscrizione, a stemma, a moneta, a bandiera, deve a qualunque costo ricevere un senso logico. L’errore della legge attuale diventerà necessariamente una verità odiosa.
Mi spiego richiamando per un’ultima volta la legge delle regie numerazioni, la quale esige che ogniqualvolta un principe parte da uno Stato minore per giungere ad uno maggiore, prenda la numerazione imposta dal nuovo Stato. Per una conseguenza necessaria della sua disposizione questa legge dispensa dal mutare il numero ogniqualvolta si passa da uno Stato maggiore ad un minore. Per dare un esempio, se i re di Francia avessero preso l’Olanda, tale acquisizione non avrebbe imposto il dovere che la Francia imponeva ad Arrigo III di Navarra.
Ciò posto, in che modo si determina l’inferiorità di unoFacciamo un esempio.
Un giorno la repubblica di Lucca fu messa in vendita, col Governo, coi ministri, coi tribuni; tutto fu messo all’incanto, anche le Camere. (Risa)
Dunque l’imperatore aprì la vendita, un vero mercato, una vera asta.
La signora Sina, madre dei tre figli di Castruccio Castracane, offerse 12 mila scudi d’oro; Francesco Castracane ne offerse 12 mila; un partito lucchese, desideroso di comprare la propria patria, ne faceva salire il prezzo a 50 mila scudi; poi Firenze ne promise 80 mila, purchè fosse differito il pagamento; ma alla fine un ricco genovese, che voleva procurarsi il divertimento di sostenere la parte di re, s’ebbe la repubblica al presso modestissimo di 30 mila scudi immediatamente sborsati.
Voi ben vedete che questa repubblica non poteva valere meno; era una repubblica da nulla! (Risa) Chi meno la stimava aveva ragione; ma perchè? Solo perchè nulla valeva per un principe; perchè, a capo di pochi mesi, divorava essa il principato; perchè lo stesse genovese, suo compratore, credevasi felice di cederla gratuitamente ad altro principe; e questa repubblica di sì misero valore per ogni potente, sopravvisse sino al 1796, e vide sepolti e i figli di Castracane, e gli Spinola, e tutti i nemici suoi.
Mantenete il titolo di Vittorio Emanuele II; questo titolo, dovendo pur avere un significato, dichiarerà che Vittorio Emanuele è passato da uno Stato maggiore ad uno minore; che più stima la sua Savoia per metà perduta, che non l’intera Italia, dove in ogni crisi il regno risorge e svanisce con eguale facilità. E siccome ognuno rispetta l’ereditaria sapienza della Casa di Savoia; siccome è noto che mai non derogò al suo passato, benché spesso si trovasse in mezzo alle più disperate circostanze della politica; e siccome tutti sanno che essa è solita a sottoscrivere paci da re quando i re di Francia sottoscrivono paci da duchi, quanto più grande è la stima che le si deve, tanto più dichiarerete effimero il regno proclamato. Si crederanno non apprezzate le nuove annessioni; incerte le improvvisate fusioni; equivoci gli sforzi per estendere il regno; repubblicane le intenzioni che ingrandiscono la monarchia.
La sfiducia, una volta proclamata negli atti, nelle medaglie, nei bronzi, nelle intestazioni, negli «strumenti, obbligherà i popoli a cercare per quali ragioni il discendente dei duchi di Savoia e dei re di Sardegna tema di avventurarsi tra le vicissitudini italiane; per quali cagioni egli diffidi di tante ovazioni, di tanto entusiasmo, di tanta aspettazione destata.
Voi vedete la situazione generale; io non voglio ripetere critiche da me fatte ieri o avanti ieri; ma si dubiterà della utilità delle annessioni, della legittimità della guerra non intimata, del valore della legalità violata, della sicurezza di uno Stato che suppone tante idee sottintese, tanti misteri dissimulati; quindi giungerebbe forse l’istante in cui le parole stesse Vittorio Emanuele II esprimerebbero un’amara ironia.
Dunque, o signori, vi lascio giudici della intestazione. Io presi la parola solo per rifarvene osservare le conseguenze, solo per compiere l’obbligo di esporre il mio pensiero.
Noi siamo qui riuniti come ai tempi di Cola da Rienzo: tutta l’Italia delibera: Toscani; Emiliari, Napolitani, Siciliani,