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camera dei deputati -- sessione del 1861


rebbe l’impressione, che questa novità di trasandare il nome temuto del Creatore potrebbe fare sui popoli italiani, cristiani tutti? Non potrebbe ingenerare in loro, per non dire altro, dolorosissime apprensioni?

Avete considerato abbastanza quale sarebbe l’impressione che questa novità potrebbe fare su dei popoli cristiani d’Europa, anzi del mondo? Signori, senza dubbio, noi popoli italiani abbiamo il diritto di determinare ed ora, e sempre le sorti nostre; pure ingiustissimamente ci si è contrastato, nè si cessa ancora da alcuni di contrastarcelo. A fiaccare la forza materiata di costoro, non è in noi; ma assai è in noi d’investire, di scemare a gran pezza la forza morale a cui eglino anco ricorrono contro di noi; ma è in noi sempre di non aumentare quella forza morale, la quale, alla fine, è la potentissima; è quella che conduce e doma la materiata, perchè i pensieri guidano le azioni, questa è legge connaturata e felicissima degli umani. Quando non si sa essere giusti e veraci, si finisce con essere imprudenti. Mirabeau, certamente non sospetto di soverchia religione, a coloro, i quali nella Constituente francese volevano togliere alla intitolazione del re le parole per grazia di Dio, rispondeva: queste parole per la grazia di Dio sono un omaggio alla religione, e questo omaggio è dovuto da tutti i popoli del mondo, questo è un disegno religioso senza alcun pericolo, e prezioso a conservare come punto di riunione tra gli uomini.

Signori, non saremo noi Italiani che spezzeremo questo punto di riunione tra gli uomini, anzi questo vincolo perpetuo della concordia e della carità degli uomini, genere medesimo di divina fattura comunque distinto in istirpi e genti. Non lo spezzeremo noi Italiani che siamo per misericordia divina i supremi depositari della gran Manifestazione divina.

Laonde, o signori, in nome della logica umana e della dignità dell’italico regno, vi chieggo che il I Re d’Italia non si chiami II, si chiami Vittorio Emanuele; in nome della realtà de’ fatti vi chieggo che si chiami Re per la volontà della nazione; in nome della verità eterna, che Dio ha creato e governa il mondo, vi chieggo che si chiami Re per la grazia di Dio.

Presidente. La parola spetterebbe al deputato La Farina, ma, non essendo presente, la concedo al deputato Bertolami.

Varese Io mi sono fatto iscrivere dei primi.

Presidente. Ella parla contro, e il suo turno non le spetta ancora; si alternano gli oratori pro, contro ed in merito. Del resto, per parlar contro, vi è prima di lei il deputalo Miceli.

Bertolami. Signori, in nome della logica, per adottare l’espressione dell’onorevole preopinante, noi oggi decideremo se Vittorio Emanuele debba chiamarsi I o II; perchè la logica vuole che o si chiami I o II; ma che non abbia nessuna numerazione, cosicchè quello che viene dopo di lui non possa ragionevolmente chiamarsi nè I, nè II, nè III, questo, o signori, vi confesso che la mia logica non sa comprenderlo. (Sussurro)

Trattiamo dunque la quistione vera, e mi piace entrar diritto nella quistione.

Non vorrei seguire per alcun conto il signor Ferrari nell’indagine delle monete, delle pergamene o delle medaglie; amo di trattare la quistione per sè stessa francamente, senza alcuna perifrasi.

Il signor Ferrari non voleva porla nettamente, per timore che la sua opposizione potesse parere poco benevola al Ministero. Io rispetto gli scrupoli di gentilezza del signor Ferrari verso il Ministero; ma io, nell’attuale questione, non vedo
nè Ministero, nè altri; voglio esaminarla, o signori, come credo che il Parlamento italiano lo debba.

Togliamo, o signori, le ambagi, togliamo gli esempi storici, i quali si prendono a prestito senza alcuna ragionevole conseguenza. Se si trattasse di una terra aggiunta all’altra, allora entrerei ad esaminare se la nuova è maggiore dell’antica, o se minore, per trarne la debita conclusione. Se si trattasse poi di uno Stato straniero, allora si direi che hanno ragione i signori Ferrari e D’Ondes, perchè, quando un principe di uno Stato diventa principe di un altro Stato straniero, è ben logico che debba avere una numerazione nel primo ed una nel secondo. Questa è cosa di tanta evidenza, che non mi pare valga la pena di una discussione.

Ma, o signori, non si tratta di ciò; la nostra questione è ben altra; Vittorio Emanuele è stato Re di una terra italiana; Vittorio Emanuele è stato propugnatore dell’indipendenza non solo della sua terra, ma di tutta la patria italiana; Vittorio Emanuele è riuscito nel suo glorioso disegno, mercè la grandezza dell’animo suo, mercè la cooperazione de’ popoli italiani; Vittorio Emanuele non mi pare abbia quindi alcuna mutazione a fare; la mutazione è avvenuta nella cosa, non nella persona; e per ragioni potentissime non può, secondo me, rompere la tradizione di famiglia.

Signori, se noi guardiamo la storia con occhio diligente e perspicace, vediamo, nella famiglia onde il Re nostro discende, il principio nazionale che qualche volta è stato offuscato, è vero, ma che però è rimasto, direi, latente nella radice, fermo e permanente nel seno della dinastia; quel principio, dico, che condusse l’Italia mano mano sino agli odierni stupendi ordinamenti. Sia dacchè i Conti della Moriana furono i custodi del passo delle Alpi, sia dacchè se ne fecero vigili sentinelle in faccia allo straniero, la gloria dei Conti della Moriana diventò gloria italiana; e la fermezza dei propositi manifestata dagli avi di Vittorio Emanuele, le virtù guerresche e civili furono un patrimonio ben più prezioso che non le terre che essi gli trasmisero.

Or noi faremmo un rimprovero ai principi del Piemonte di non essere stati principi della Penisola? In verità che sarebbe questo il più strano dei rimproveri immaginabili. Non erano principi italiani, perchè allora l’Italia non era in condizione di potersi costituire; per questo forse si dirà che le loro virtù non onorassero la terra italiana? Non aprirono essi il campo agl’Italiani di poter giungere in appresso, collo svolgersi dei tempi, a conseguire un’Italia, a costituire la loro nazionalità? Sono due concetti codesti i quali non si possono, non si debbono scompagnare.

Ma una ragione assai più forte, o signori, si presenta alla mia mente, ed io la dirò con tutta schiettezza, perchè il Principe che oggi regna avventurosamente in Italia è tal principe che può sentire la verità tutta intera.

Io crederei di fare a Vittorio Emanuele un’ingiuria, se dicessi che l’Italia tutto deve a Vittorio Emanuele. Nossignori, la coscienza italiana, la coscienza del mondo intero risponderebbe a siffatta asserzione: è menzogna; Vittorio Emanuele, o signori, continuò la politica di suo padre. Se egli avesse gittato primo il guanto all’Austria, s’egli primo avesse detto ai popoli italiani: seguitemi, voi non dovete più avere un municipio e un campanile, voi dovete avere finalmente una patria che sia tempio di virtù e di grandezza, allora, o signori, si potrebbe questionare se sorgendo oggi in tal modo Vittorio Emanuele, debba d’un tratto, non dirò velare, ma distruggere, incenerire tutte quante le memorie de’ suoi padri. Invece fu Carlo Alberto, la di cui memoria, per essere di Re sventurato, non è certo men sacra nei nostri cuori; fu