Pagina:Atti del parlamento italiano (1861).djvu/37

Da Wikisource.

– 555 –

tornata del 17 aprile




Signori, chi di voi ha il coraggio di cancellare questi dodici anni, voti per la mutazione del nome; io, francamente lo dico, questo coraggio non l’ho.

presidente. La parola spetterebbe al deputato Ferrari per un fatto personale; però, siccome il suo turno d’iscrizione non è lontano, se intende di entrare nel merito della discussione, potrebbe aspettare a rispondere.....

ferrari. Potrò rispondere oggi stesso?

presidente. Spero di sì, poichè prima di lui non è iscritto che il deputato Crispi, e poi un oratore in favore.

crispi. Cedo il mio turno al deputato Ferrari.

presidente. Allora il deputato Ferrari ha facoltà di parlare.

ferrari. Mi rinchiudo nel fatto personale. La sola parola che mi abbia punto, benchè pronunziata, certo, senza intenzione meno che amichevole, si è quella di aver io portato in quest’aula della diplomazia. (Si ride)

Signori miei, io avrò qui portato mille difetti, tranne quello di dissimulare in alcun modo il mio pensiero. Il mio pensiero sembrerà forse in contraddizione cogli avvenimenti; chi ha esaminato il moto italiano dal punto di vista di uno speciale governo, mi dirà forse improvvido, tanto più che nessuno è obbligato di leggere i miei libri, o da rendersi ragione delle mie teorie scientifiche. Però, quando si parla di me, discutendo in quest’aula dati esteriori al Parlamento stesso, io ho il diritto d’esser discusso qual sono, e accusato colle mie idee esposte nella loro integrità. E che? io milite della rivoluzione italiana, io che l’ho vista in tutte le sue forme, io che l’ho sollecitata quando tutti acclamavano il pontificato di Pio IX, che ho avuto il coraggio di stare solo contro tutti, e quasi maledetto; che ho preveduto, senza un batter di ciglio, lo svanire di quest’immensa mistificazione, io non mi aspettava d’essere chiamato imprevidente.

Che se io declinai in certo modo, fatte le mie riserve, se declino la questione giuridica della grazia di Dio, io vi dirò che ciò fu fatto da me per rispetto al senso pratico di quest’Assemblea. Noi siamo sotto l’impero della religione dominante; la religione dominante è proclamata nello Statuto; ed una volta proclamata in uno Statuto, ne discendono tutte le conseguenze del Codice civile e del penale; conseguenze che si rivelano in ogni atto della monarchia.

Ora, in verità, quantunque io applauda a tutte le reclamazioni che sono state fatte e che saranno fatte contro la formola della grazia di Dio, quantunque vi applauda, io non ho potuto ripetere in questo recinto le idee filosofiche da me lungamente esposte nelle mie opere. Ma perchè non le ho potuto qui ripetere? Io ve lo dirò in due parole: per la stessa ragione per cui non le posso ripetere in Italia. Sì, non posso apportarle in Italia, e ne attesto il tribunale di Casale, il quale nel 1852 ha condannato il mio libro Della filosofia della rivoluzione, ed ha condannato il signor Giovanni Cattaneo, notaio attualmente di Milano, uomo al certo nè sospetto, nè mal noto, l’ha condannato, dico, a nove mesi di prigione per il delitto strano di aver propagato questo mio libro, che era d’altronde steso in stile scientifico e con forme assolutamente metafisiche

Il signor Tecchio, vice-presidente di questa Camera, potrà confermare il mio dire, essendo egli stato il difensore del signor Cattaneo. Se il propagatore del libro era condannato, io vi domando come sotto l’impero della religione dominante l’autore sarebbe stato risparmiato!

E volete, signori, che io stampi libri sotto questa legge, in Italia; e volete, signori, che io porti in questo recinto proposizioni le quali, secondo me, sono vere, nè possono certo

scandalizzare nessun legale francese, nè inglese o svizzero; le quali sono stampate e ristampate all’estero nei paesi liberi, ma che qui sfortunatamente non possono penetrare?

La mia diplomazia sta nella tirannia della legge; nell’impero, se volete, della legge; io non posso parlare. Ed è per questo che, quando il signor Boggio mi rimproverava di voler giungere a Roma colle idee di Strauss e di Hegel, e che fraintendeva il mio concetto dandogli un senso dogmatico, io fui felice di vedermi difeso dal signor Maresca allora a me sconosciuto, e lo ringraziai come un genio sceso dal cielo della scienza, per la ragione ch’egli sacerdote, egli interessato all’ortodossia romana e devoto al Dio di Roma, di Gregorio VII, al Dio dell’arte e di Leone X, egli ha compreso ch’altro io non domandavo che di essere Italiano, Italiano nel senso grande, nel senso che ammette ogni libertà. (Bene!)

Sapete voi per che cosa noi siamo stati ultimamente infelici? Perchè siamo stati troppo liberi, perchè abbiamo preferito rinunciare a tutto, fino alla indipendenza politica, piuttosto che rinunciare alla libertà del pensiero. (Bravo! a sinistra) Che la mia filosofia, che le dottrine di Strauss e di Hegel possano essere erronee, io lo concedo; ma appunto io chieggo la libertà di questo errore e la libertà nello stesso tempo di ogni sacerdote. Che il sacerdote pubblichi pure le sue scomuniche, se le nostre idee non trionfano coll’unica forza delle parole, noi rifiutiamo le leggi penali che volessero darci la vittoria contro le false dottrine della Chiesa romana (A sinistra: Bene!); e in ogni tempo io mi professai amico delle più diverse persone, e cercai anche nella mia stessa vita pratica di non ammettere distinzioni, e di esercitare, dirò cosi, la vera fraternità della scienza.

Del resto, nello stesso modo che io mi limito a rettificare un semplice fatto personale sotto il punto di vista della diplomazia (Si ride), mi limiterò egualmente a rettificare un altro fatto personale sotto l’aspetto dell’archeologia, della storia, del medagliere, degli archivi.

presidente. Se vuol parlare nel merito, parli pure, non è limitato al fatto personale, perchè il deputato Crispi gli ha ceduto il suo turno d’inscrizione.

ferrari. Non voglio abusare dell’indulgenza della Camera. (Parli! Parli pure!)

Vedete, o signori, il vantaggio della libertà che santifica ogni investigazione ardita, illimitata nel campo delle idee, e che si avventura senza vani terrori in mezzo agl’idoli del passato. Sono essi atterrati dalla discussione, e ne nasce la vera emancipazione della nazione. Perchè, secondo me, la nostra disgrazia non sta solo negli ostacoli materiali che ci si oppongono, negli eserciti che ci combattono e nei nostri nemici esteriori; oltre a questi noi abbiamo eziandio dei nemici interiori, e li abbiamo in noi stessi. La prudenza colla quale si vogliono dissimulare alcune idee, alcuni nomi, alcune cose, gl’innumerevoli sottintesi che si moltiplicano ad ogni istante nella nostra discussione, e la specie di meraviglia che ci coglie quando nei giornali inglesi o francesi noi troviamo chiaramente espresse le cose che noi appena ci susurriamo all’orecchio, ci mostrano che noi siamo schiavi di mente.

Mi vietate voi di applicare all’avvenire il mio libero pensiero; permettetemi, o signori, di applicarlo al passato. E qui rettifico una seconda accusa mossami dal signor Carutti, la quale mi ferisce forse più della prima, perchè il passato è per me una religione. L’avvenire balena nella lunga serie de’ suoi secoli; i suoi morti mi consolano di vivere; gli antichi re mi parlano negli archivi e nei musei dei loro diritti, dei loro errori; e a torto il signor Carutti mi accusò di non averli intesi negli archivi e nel medagliere di Torino. Pur troppo mi