Pagina:Büchler - La colonia italiana in Abissinia, Trieste, Balestra, 1876.pdf/153

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l’altra pei compagni e pei bagagli, che a dire il vero erano molti e di gran mole.

Gentilomo entrò il primo nella capanna, e vi si fermò alquanti minuti. Quand’egli uscì, m’introdussi io medesimo, sebbene a malincuore, dopo alcune parole di sconforto sussurratemi in orecchio dal collega.

Benchè apparecchiato a qualche cosa di grave, pure non potei frenare un gesto di esclamazione dolorosa allorchè, entrando nella capanna, i miei occhi si fissarono nel volto del malato. Egli se ne accorse, e senza aspettare ch’io lo salutassi per primo, mi rivolse la parola dicendomi:

«Vedi, Büchler, come sono ridotto. Ah, non avrei mai creduto di dover lasciar la mia pelle in questi luoghi e sì presto!

A rincontro io cercai d’incoraggiarlo e dissi, imbarazzatissimo, quelle parole che credetti più acconcie alla circostanza.

Poco dopo, accusando il bisogno di dormire, mi licenziò, ed io raggiunsi Gentilomo, col quale stabilimmo di fermarci a Keren ad aspettare gli eventi.

Le casse di bottiglie in seguito furono fatte recapitare al negus, dal padre Stella.

Faccio qui menzione d’altri presenti mandati a Desiaciailo, vale a dire di alcuni tappeti e d’una tabacchiera d’argento con le iniziali del suo nome incise a caratteri amarici.

Unitici agli altri compagni, formammo un tutto con essi, prendendo parte ai loro travagli, e montando per turno la guardia alla capanna due ore per ciascuno, regolarmente. Di notte, quegli che stava in sentinella teneva ai piedi una grossa candela accesa, sulla quale erano stati praticati dei solchi equidistanti, ognuno dei