Pagina:Büchler - La colonia italiana in Abissinia, Trieste, Balestra, 1876.pdf/180

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dal girare intorno a noi, malgrado i fuochi che mantenemmo accesi a dispetto dell’umidità e della pioggia.

Quella notte fu per noi, quant’altre mai, interminabile, eterna; ma l’alba poco a poco si distese sull’orizzonte e il sole spuntò a rischiararci la via, per la quale dovevamo procedere.

Dopo aver arrostito un grosso topo selvatico, ammazzato durante la notte, e spartitone un pezzo ad ognuno di noi, asciolvemmo, e sorseggiato un po’ di cognak ci rimettemmo in cammino.

Attraversato un tratto del Samhar entrammo ad Assus, e senza fermarvisi, proseguimmo per Moncullo.

Anche in questa piccola tappa ci colse la pioggia. Non ne potevamo più: Gentilomo soffriva più che gli altri, e nervoso com’egli era, dava in ismanie disperate, cosicchè, colto da un accesso di bile, aveva tratto dalle tasche una pistola per togliersi la vita. Fu però da noi trattenuto e confortato col noto adagio del: solatium miseris socios habere poenarum.

Non era ancora il meriggio che entravamo a Moncullo, luogo d’infausta memoria in cui dovemmo privarci persino dei fucili, vendendoli agli indigeni per poter pagare ai servi la pattuita mercede. Anche il somiere passò in proprietà di un negoziante del luogo, costretti in seguito a sostituirlo nelle fatiche, portando un po’ per uno i nostri fardelli sino al luogo d’imbarco.

Partiti anche da Moncullo il 5 ottobre, ci trascinammo sino a Massaua, ove intendevamo fermarci qualche giorno per ricomporre le esauste nostre forze, e procurarci un sambuk che ci portasse a Zula, l’Adulis degli antichi.

All’uopo contavamo sopra uno Spagnuolo colà dimorante, certo Hamsa, che n’era stato indicato come