Pagina:Büchler - La colonia italiana in Abissinia, Trieste, Balestra, 1876.pdf/19

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Sembra però che il destino s’incaricasse della mia vendetta giacchè, alcuni giorni dopo, il nostro rodomonte versò in tale pericolo da doversene ricordare con raccapriccio per tutta la vita.

Eravamo usciti un bel mattino, e viaggiavamo lungo una immensa foresta, assai fitta e frastagliata, rallegrati dalle soavi melodie delle diverse specie d’uccelli ed internandoci poco a poco in una piccola gola, allorchè uno dei nostri s’accorse della mancanza dello Spagnuolo. Di ciò tuttavia, per alcune ore non femmo gran caso, conoscendo, per molte antecedenze, la sua smania di errare per le foreste allo scopo di millantare il suo coraggio ed il suo sangue freddo nei più gravi pericoli.

Vedendo però che le ore passavano, ci rivolgemmo agl’indigeni chiedendo se lo avessero veduto o se qualche indizio potessero fornirci; ed uno di loro, l’ultimo che seguiva sopra un camello la carovana, ci rispose di averlo veduto attraversare la foresta nel senso opposto a quello, pel quale noi eravamo diretti. E a dire il vero, l’indigeno non aveva mancato di esortarlo a starsene in compagnia dicendogli: Venite dietro a noi, altrimenti andrete ad ismarrirvi; e se ciò vi accade in questa fitta foresta, arrischierete di non trovarci più.

Al che il millantatore, sfoggiando parole di coraggio spartano, aveva risposto: essere capace quanto un indigeno di percorrere in ogni senso quelle selve, e non temere di alcuna cosa.

La giornata frattanto volgeva rapidamente al suo fine, e poi, tra la compassione e lo sdegno, andavamo ragionando sulla probabilità d’una disgrazia, sulla critica condizione in cui poteva trovarsi, sia pei pericoli esterni, sia pel patimento di fame e di sete, quando