Pagina:Büchler - La colonia italiana in Abissinia, Trieste, Balestra, 1876.pdf/29

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città, ristretto soltanto nella piccolissima cerchia d’affetti e di corrispondenza in cui trovavami coi miei compagni di ventura. Ivi il significato della parola libertà mi si appalesava nella pienezza del suo valore.

Mentre stava così fantasticando e la mia pipa aveva arso la sua misura di tabacco, fui distratto dall’apparire di due pappagalli che svolazzavano intorno a noi quasi volessero farci festa. All’improvviso uno di quei poveri animali cadde fulminato a terra, per opera dello Spagnuolo che l’avea colpito con un tiro di fucile. Il pappagallo superstite, spaventato e confuso, balzava di frasca in frasca, schiammazzando in tuono di dolore, quasi volesse deplorare il triste fato del compagno e il proprio conseguente isolamento. Ciò diede pena grandissima a me ed agli altri, escluso, ben inteso, lo Spagnuolo, che sorrideva beffardamente e gloriavasi dalla fatta preda.

Una caccia più proficua, e quasi necessaria, reclamavasi da noi e per motivi di sostentamento; per cui ci internammo entro la selva cacciando alle tortorelle. Ne facemmo infatti discreto bottino, il quale servì ad ammannirci la cena.

Calmato il calore, bevemmo un bicchierino di cognak e caricati i camelli proseguimmo la strada verso Cassala. Gl’indigeni prima di movere il passo, invocarono, siccome di consueto, il protettore delle carovane in nome di Maometto, allo scopo d’essere preservati dagli infortuni.