Pagina:Büchler - La colonia italiana in Abissinia, Trieste, Balestra, 1876.pdf/42

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Mecca, avesse a render loro la vista, si sottoponevano a quella cura singolare.

L’applicazione di quel rimedio si eseguiva e combinavasi per modo, che, secondo le dichiarazioni dei pazienti, essi sentivano un certo qual fresco alla parte inferma, che loro procacciava, almeno pel momento, refrigerio e consolazione. Perciò se ne andavano sicuri della futura guarigione. La mercè quindi delle deliberazioni di quelli ignoranti, ne derivava all’impostore siffatta rinomanza, che l’affluenza diventava ogni giorno maggiore.

L’abitazione del signor Panajoti era a tutte l’ore frequentatissima; gl’indigeni accorrevano, chi a veder noi, chi a idolatrare lo Schek che operava i miracoli di cui sopra, chi a impetrar dal medesimo le sante e miracolose sue cure.

Noi intanto giravamo il paese, tutto osservando con minuziosa attenzione, maravigliati della grettezza e della meschinità che riscontrammo in quello strano modo di vivere, e soffermandoci poi, parecchie ore, nella seconda abitazione del signor Panajoti, sita in altro punto del paese, e nella quale tenevansi raccolti varî servi negri che ci servivano a tavola. In questa seconda dimora cenavamo ogni sera, serviti da cinque schiavi cordofani.

Uno di costoro se ne stava ritto in piedi, con un grande fanale tra le mani fin tanto che durava la cena; il secondo teneva un piccolo bacino di metallo con entro una spugna ed un pezzo di sapone; il terzo attendeva alle salviette; il quarto sbarazzava la tavola dalle stoviglie e riceveva dal quinto le vivande che ci venivano poste innanzi con garbo e con rispetto.

Certamente, nell’harem del Sultano le femmine non avrebbero potuto esigere migliore servitù.