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chè il suolo fosse tributario dell’Egitto; e, se pure la fortuna ci avesse dapprincipio favorito, non avremmo potuto a lungo sostenerci contro avversari troppo potenti.
D’altronde, lo scopo della nostra missione era ben diverso, anche prescindendo dalla poca concordia che avrebbe potuto regnare fra Cristiani e Mussulmani. Questa fu l’opinione del sig. Stella, che noi tutti dividemmo con lui.
Ci raccontò egli, che prima di noi, altra carovana di Europei, guidati da un francese, aveva provato a proprio costo quanto fosse insostenibile la loro posizione in quei luoghi. Il conte Debiseu, arrivato con trecento uomini, fornito di copiose vettovaglie, e munito d’armi portatili e di tre pezzi di cannone, aveva la missione di stabilirsi nelle terre dei Bogos, e per sua mala ventura, passato per Zaghà e fattovi sosta alcuni giorni, aveva ricevuto l’eguale proposta da un capo, che fu un fratello dei Deghlel residente a Kufit.
Questi lo aveva lusingato a tentare un colpo di mano contro i soldati del Cordofan, fornendogli gente e mezzi d’ogni specie, lusingando anche la sua ambizione col cedere il comando nelle sue mani, e facendogli da ultimo osservare che avrebbe avuto opportunità di erigere solidissime fabbriche di granito, e così trincerarsi e rendersi indipendenti dal governatore di Kartun. Il sig. Stella, che trovavasi a quell’epoca nel medesimo sito ed aveva quindi opportunità di parlargli e di consigliarlo, gli aveva fatto vedere non essere attuabile la proposta; ma il francese, lusingato dal proprio orgoglio, fingeva di dargli ascolto anzi stabiliva di recarci con lui nel paese di Bogos. — Invece di soppiatto, cercava di screditarlo e di perderlo.