Pagina:Büchler - La colonia italiana in Abissinia, Trieste, Balestra, 1876.pdf/90

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accampammo in una gola alla distanza di circa un’ora da una cert’acqua chiamata Osch. Il sito era oscurissimo e tetro. Accendemmo parecchi fuochi e mandammo alcuni indigeni a provvederci d’acqua, i quali ritornarono, dopo molto tempo, grandemente affaticati a motivo dell’asprezza del cammino, carichi com’erano degli otri ripieni. Noi aspettavamo con impazienza il loro arrivo per poter cuocere un po’ di lenti; tanta era la fame che ci tormentava.

Arrivati che furono, ci diemmo ad approntare la cena; e dopo aver mangiato, dispensammo vivande e bevande anche agli indigeni, che ne rimasero soddisfattissimi. Vollero perciò contraccambiare alle nostre attenzioni, divertendoci con salti e balli eseguiti intorno ai fuochi, cui noi rispondevamo con canti ed inni patriotici. Tutto sommato, passammo una mezza nottata di buonissimo umore, tanto più, che, giusta i fatti calcoli, il giorno seguente avrebbe dato termine a tante sofferenze e a tanti pericoli, siccome l’ultimo del faticosissimo nostro viaggio.

Dato termine alla festa ci coricammo; ma se gli altri dormivano, io non poteva prender sonno, e ritornava col pensiero a tutto quello di cui era stato attore e spettatore da tanto tempo, terminando con un profondo sospiro che mi uscì proprio dal cuore. Alcune domande ch’io mossi a me stesso, mi riempirono di tristezza:

«Ora che mi trovo in questi luoghi remoti, cosa sarà di me?... La faccenda come andrà a terminare?... Rivedrò più la mia patria, i miei genitori, gli amici che vi ho lasciato? È da due anni, soggiungevo, che non ho novelle di loro, nè essi n’hanno di me. Se la fortuna mi sarà avversa, come l’ebbi nella mia patria, qual fine sarà mai la mia?