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che buona sfuriata; quando s’udì la voce del garzone che gridava dal basso:

— Principale! principale!

— Che c’è? — dimandò il legnaiuolo, andando in fretta ad alzare il saliscendi.

— Due signori che vi vogliono quaggiù, — rispose il garzone.

— Ma se lo dicevo io, che non avrebbero tardato! — esclamò Pasquale, rasserenandosi a un tratto. — E non sapevano mica che io dovessi spicciarmi così presto lassù. Ero una bestia io, e un pochino anche voi, Tecla, colle vostre intemerate.

— Grazie del complimento!

E qui mastro Pasquale, fattosi tutto zucchero, si avvicinò per farle una carezza. Ma Tecla gli rispose con una alzata di spalle.

— Vedete che grazietta! — disse il vecchio legnaiuolo tra sè, in quella che scendeva le scale. — Se la mi avesse fatto sempre così, non ci sarebbero quattro mangiapani di più, senza contarne altri due, che, poveretti, mangiano quello degli angioli. Basta, pigliamo quello che Domineddio ci ha mandato. —

Con questa chiusa filosofica, mastro Pasquale giunse in bottega, dov’era Michele ad attenderlo, e con Michele quell’altro delle gazzette come lo chiamava il legnaiuolo, e che era (i lettori l’hanno capita da un pezzo) il nostro bravo Giuliani.

— Buon giorno e buona sera, Pasquale! — disse il nostro Michele a mala pena ebbe veduto il legnaiuolo. — Passavamo da queste parti, e siamo entrati a vedere se per caso foste già di ritorno.

— Diffatti eccomi; quest’oggi mi sono sbrigato più presto.

— Orbene? — gli chiese il Giuliani.

— Ho fatto ogni cosa.

— Da Senno?

— Sì; — disse Pasquale; — la ci ha avuto il foglio, e l’ha subito letto.

— Da bravo, raccontateci come.

— Volentieri; ma prima di tutto si accomodi. E tu che fai costì ritto, a bocca aperta, bighellone? —

Quest’ultima frase, già i lettori indovinano, era rivolta al garzone, che vedendo quei personaggi a colloquio col suo principale, si era ficcato dentro anche lui, per esser quarto tra cotanto senno.