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246 lettere dal mare


d’acqua, dopo lo scoppio odorava di nafta. Perché tutto il mare lì intorno era coperto di uno strato di nafta, che ha continuato a salire dal fondo per giorni e giorni come sgorgando da una sorgente.

Fu la prima cosa che si vide appena si calmò il sommovimento delle acque e si dissipò il fumo denso e nero dell’esplosivo: una immensa macchia cinerea e bituminosa frangiata da iridescenze. Poi un oggetto venne a galla sul grassume fangoso in mezzo ad una quantità di detriti irriconoscibili e minuti: un rotolo di carta igienica. Feroce dileggio del caso. Il mare non ha reso altro.

I palombari scesero a vedere. Dovettero calarsi a profondità quasi impenetrabili all’uomo, dove la pressione paralizza, e la luce del giorno non arriva che come un pallido crepuscolo lunare. Videro delle masse informi di ferraglie contorte; delle lunghe lamiere stranamente rapprese, come drappeggiate con grandi pieghe da stoffa; dei grovigli di tubi, di macchinari e di corpi umani nelle cavità più buie del sottomarino spezzato. Due volti mostruosi parevano guardare da una angusta squarciatura, con gli occhi sbarrati e la lingua di fuori. Tutto era color del fango, ma s’intravvedeva qua e là la tinta azzurra del dorso e la tinta bianca del ventre del battello distrutto. Cadaveri e macchine erano serrati, come compressi, in una sola cosa inestricabile e orrenda,