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so, dalla cresta alla valle, tagliando il monte con una fenditura profonda, mostrava netti i suoi bordi chiari, cosparsi di detriti dello scavo fresco simili allo smollicamento lasciato da una lama sulla crosta di un pane gigantesco. I reticolati si allargavano a striscie irregolari con un’apparenza di vegetazioni diafane, di straordinarie gramigne azzurrastre, basse e tenaci.

Chi è sul Sabotino guarda a Oslavia come si guarda sulla via da una finestra. Prima della guerra attuale sarebbe sembrata inattuabile, impossibile, assurda, la conquista di posizioni che hanno il nemico di fronte, di fianco e in alto. Ma le vecchie teorie sono rovesciate, le situazioni più inverosimili si affrontano, si assalta l’inaccessibile, si tiene l’intenibile, si resiste nelle circostanze più critiche, si riesce a rimanere aggrampati con le unghie e con i denti su fronti spaventose, allo scoperto o quasi, come gatti sotto la cresta di un muro troppo alto, salvo a scivolare indietro un po’ per scegliere l’istante di un nuovo slancio.

Quella mattina si trattava appunto di un nuovo slancio. Volevamo riprendere Oslavia, conquistata otto giorni prima, e perduta dopo ventiquattro ore di resistenza accanita sotto ad un bombardamento annichilatore.

Le posizioni austriache a sinistra si profilavano sullo sfondo cupo delle falde del Sabotino. Le trincee correvano sinuosamente, sopra confuse e tetre ondulazioni di dorsi, fino