Pagina:Bellentani - La favola di Pyti, 1550.djvu/12

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LA FAVOLA

     Colui che già di me non è maggiore,
     Benche de vil pastor l’idolo sia?
Ah quanto egli à ragion arde et agghiaccia?
     Quanto a ragion sospira? et quelle chiome,
     A cui stringer il cor non son possenti?
     Possenti son pur elle à pormi in fuoco
     Bench’ad arte neglette hora le avolga,
     Che si ad arte ella ornasse, hor non porriano
     Gli Scithi in fuoco et gli Ethiopi in ghiaccio
     Solamente in mirar l’oro forbito?
     Ah che vaghi occhi poi son quegli à cui
     Sereno ciel non ha stelle simili,
     Et quella man et quei bei schietti diti.
     Hor non torriano à Marte et l’elmo et l’alma,
     Torriano à Giove anchor l’arbitrio intero,
     Come à me tolto veggio or che conosco
     Che l’ascose bellezze assai migliori
     Mi vieta l’honestà ch’in lei non miri,
     Et così detto da l’ardor convinto
     Posti quasi in oblio gli usati voli
     L’arse penne senti ne l’aria meno
     Venir, ne piu sapea dove ne gisse
     Da la maga beltà preso et in tuto
     Trasformato in stupor, che parve come,
     Chi vide Alcide dal tartareo chiostro
     Con catene à se trar Cerbero avinto,