Pagina:Berchet, Giovanni – Poesie, 1911 – BEIC 1754029.djvu/348

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I VISCONTI palpitar sul patibolo le stesse misere salme sempre, e a brani a brani lacerate, ben venti e venti morti pria di morire sostener mal vive. Vista atroce, deh cessa! Giá giá tace del di la luce al furibondo. Ignuda spregevol polve, or che presumi? Escite, vedove lacrimose, orfani figli ; escite a calpestarla. Ah! voi tremate del fratei che rimane. E non ancora devoto alla sventura è quell’ infame? Dove siam noi? Chi ne trasporta in mezzo di si gran folla? Spazio al guardo almeno date, o tempi futuri. Eccolo, arresta, feroce veglio; in chi t’affidi? Arresta. Oh giustizia di Dio, che densa nube a chi sperder tu vuoi mandi sul ciglio! E tu, si altero insultator, si pieno l’alma di tanto fiele, a che nel sozzo cor sanguinoso una virtú ricetti? Infelice ! ché a lei la tua ruina commetteranno i fati. Ai giorni tuoi giá la frode sorrise un fatai ghigno. Ma te la fé dei sacramenti inviti al consanguineo amplesso, e te dal vallo seduca inerme, ché timor d’ inganni non sorge in alma generosa e franca. Mesci i negri destin, mesci, o sorella. Veloci a piè dell’ardua rocca i flutti spinge PAdda a veder le sue vendette, irata ché del ponte ancor le preme l’oltraggio ardito, ed alto il corno estolle si fragorosa, che dei tanti lai del tradito, né un sol fíede l’aperto aere, e un sospir del viandante implora. Fuor d’ogni sguardo, alla memoria umana anzi l’ultimo di tolto in eterno, che speri tu? che piú paventi? Gelido non ti senti cercar viscere e sangue l’aconito, funesto ultimo dono