Pagina:Boccaccio, Giovanni – Il comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante, Vol. II, 1918 – BEIC 1759042.djvu/224

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Dio e infuse ne’ corpi nostri, dotate di ragione, di volontá e di libero arbitrio; e perciò niuna necessitá in noi può causare in farci ricchi o poveri, potenti o non potenti contro a nostro piacere. Il che in assai s’è potuto vedere, in Senocrate e in Diogene, in Fabbrizio e in Curzio e in altri assai; il che chiaramente Giovenale il dimostra nel verso preallegato, dicendo: Nulluin numen abest, si sii pnidenlia; nos te, nos facimus, Fortuna, dea in, cacloque locamus. E questo avviene per la nostra sciocchezza, seguendo piú tosto con l’appetito la sua volubilitá che la forza del nostro libero arbitrio, per lo quale n’è conceduto di potere scalpitare e aver per nulla ogni sua potenza.] [Adunque questo effetto universale de’ movimenti de’ cieli e delle loro operazioni, secondo il mio piccolo conoscimento, credo si possa dire essere quella cosa la quale noi chiamiamo «fortuna», e la qual noi vogliamo esser ministra e duce de’ beni temporali. E in questa opinione, se io intendo tanto, mi par che fossero que’ poeti, li quali sentirono che l’una delle tre sorelle chiamate «parche», o fate che vogliam dire, cioè Cloto, Lachesis e Atropos, alle quali la concezione e il nascimento di ciascun mortale, e similmente la vita e la morte attribuiscono, fosse questa Fortuna; e quella, di queste tre, vogliono che sia Lachesis, cioè quella la qual dicono che, nascendo noi, ne riceve e nutrica in vari e molti mutamenti, infmo al di della morte. E questa, secondo la qualitá della vita di ciascuno, il parer degli uomini seguitando, dicono esser buona e malvagia fortuna. E percioché, come detto è, in essa vita consistono le revoluzioni e’ mutamenti di ciascuno, assai appare ciò non essere altro che l’universale effetto di tutti i cieli, da’ quali questi movimenti, quanto al corpo, son causati in noi.] [E questa fortuna chiama l’autore «dea», poeticamente parlando, e secondo l’antico costume de’gentili, li quali ogni cosa, la qual vedeano che lungamente durar dovesse o esser perpetua, deificavano, si come i cieli, le stelle, i pianeti, gli elementi, i fiumi e le fonti, li quali tutti chiamavano «dèi»: e però vuol l’autore