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Pagina:Boccaccio - Decameron II.djvu/337

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I

La celebritá tre volte secolare del codice nel quale Francesco Mannelli terminava di trascrivere addí 13 agosto 1384 il Decameron (oggi Laurenziano XLII, i = L) era assicurata il giorno in cui Vincenzo Borghini, filologo principe e dell’opera boccaccesca studioso autorevolissimo, esprimeva intorno ad esso questi giudizi: «fu scritto l’anno mccclxxxiiii e dopo la morte dell’autore il nono, e da uomo (come a molti segni si conosce) intendente, diligente e molto accorto, Francesco di Amaretto della nobilissima famiglia de’ Mannelli, e dallo originale istesso dell’autore, come egli in piú di un luogo fa fede»[1]. Nessun dubbio che il Borghini si riferisse specialmente alla postilla dal Mannelli apposta alla parola «costette» di II 20427[2] e che suona: «cosí dice il testo originale, e però non radere tu che leggi» (L, c. 142v); ed insieme, ad altre di questo tenore: «sic est testus», «sic erat testus», «cosí dice il testo», «dicit testus» (alle parole «paoneggiar» I 2308, «come vivi» I 23418, «sosta» II 2102, «tal cosa» II 2163). Ma l’opinione si fondava anche su altre prove numerose di diligenza e di scrupolo nella copiatura, che il Mannelli pareva offrire: non mancando, dopo che aveva introdotto di suo un supplemento, d’avvertire chi legge con un «deficiebat»; annotando «deficit» se aveva rilevato la mancanza ma non aveva creduto di supplire; dove gli fosse parsa non buona una lezione,

  1. Annotazioni e discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron, pp. 11-2 della quarta edizione fiorentina (1857), che sará citata qui avanti. Sulle Annotazioni e la parte che vi ebbe il Borghini cfr. piú oltre, p. 341. Un altro passo osservabile è il seguente: «si comprende che cosí avea l’originale (ché per altri luoghi si vede che e’ [il Mannelli] l’ebbe innanzi)» (p. 71).
  2. I rinvii sono al volume, alla pagina ed alla linea della presente edizione.