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SOPRA DANTE | 47 |
dere a cui degno ne reputava la laurea, avesse quella ad un poeta conceduta, che egli concedette ad Affricano, a Pompeo, e a Ottaviano, e agli altri vittoriosi principi, e solenni uomini: la qual cosa per avventura non considerano coloro che meno avvedutamente gli biasimano. E se per avventura volesson dire, noi gli biasimiamo perocchè furono gentili, le scritture de’ quali sono da schifare siccome erronee, direi, che da tollerar fosse, se Platone, Aristotile, Ipocrate, Galieno, Euclide, Tolomeo e altri simili assai, così gentili come i poeti furono, fossero similmente schifati; il che non avvenendo, non si può forse altro dire, se non che singolar malavolenzia il faccia fare. Ma da rispondere è alle obbiezioni di questi valenti uomini fatte contro a’ poeti.
Dicono adunque, aiutati dall’autorità di Platone, che i poeti sono da essere cacciali delle città, quasi corrompitori de’ buoni costumi. La qual cosa negare non si può che Platone nel libro della sua repubblica non lo scriva; ma le sue parole, non bene intese da questi cotali, fanno loro queste cose senza sentimento dire. Fu ne’ tempi di Platone, e avanti, e poi perseverò lungamente, ed eziandio in Roma, una spezie di poeti comici, li quali per acquistare ricchezze, e il favore del popolo, componevano lor commedie, nelle quali fingevano certi adulterii e altre disoneste cose, state operate dagli uomini, li quali la stoltizia di quella età avea mescolati nel numero degl’iddii; e queste cotali commedie poi recitavano nella scena, cioè in una piccola casetta, la quale era constituita nel mezzo del teatro, stando