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340 | LA TESEIDE |
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E fello a sè senza indugio chiamare,
E cominciò con lagrime ver lui
Pietosamente in tal guisa a parlare:
O nobile signor caro, ed a cui
Mille volte morendo meritare
L’onor, del qual giammai degno non fui,
Nè potre’ mai, i’ mi veggio venire
Al passo, il qual nessun uom può fuggire.
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Al qual s’io vegno, che vi son, contento
Ne vado, mal pensando che l’amore,
Il qual m’ha dato già tanto tormento
Per la giovane donna, che nel core
Ancora come mai per donna sento,
Lascio infinito, e te, caro signore,
Cui io appresso lei più disiava
Servir, che Giove, e più mi dilettava.
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Ma più non posso, e farlo mi conviene:
Perch’io ti prego, per ultimo dono,
Se lungamente Iddio ti guardi Atene,
Che, poi del mondo dipartito sono,
E sarò gito a riguardar le pene
De’ miseri che pregan per perdono,
Quel che dirò tu facci sia fornito,
Se tu da Marte sempre sia udito.