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Durante questo periodo il prigioniero deve conservare il più assoluto silenzio, senza del quale nuovi rigori lo aspettano, perchè l’immaginazione degli uomini non è facilmente esaurita. Questi nuovi supplizi sono: la camicia di forza, i ferri, il letto di forza. Ve ne sono altri, ma non cito che i più frequentemente usati. Se la vittima di questi trattamenti barbari si ribella o se cerca di attentare ai suoi giorni la segreta imbottita lo riduce all’impotenza e spegne le sue grida di dolore.

Di più, per non trascurare nessuna precauzione, questi ribelli sono vestiti, durante il giorno, di una camicia speciale che loro tiene le braccia obbligate al petto.

Quando il condannato ha subita la pena della segreta, egli é condotto nella cella ove dovrà vivere dieci anni in silenzio.

Le celle sono un po’ più grandi delle segrete; esse sono di due metri quadrati circa, ma non sono nè meglio ammobigliate nè meglio rischiarate. Per la maggior parte è la notte continua. Nelle migliori la semioscurità. Le prigioni di Santo Stefano, di Nisida, di Civitavecchia e di Portolongone passano per le più dure. Come alimento sempre pane ed acqua. Nell’inverno, anche di notte, sempre una sola coperta. Il silenzio eterno è di rigore; è proibito leggere e scrivere, fumare, lavorare: é il più completo ozio forzato.

Si comprende ciò che può divenire un uomo sotto questo regime. Così la maggior parte dei giornali italiani fanno osservare con compiacenza che quasi mai un detenuto arriva a compire la sua pena; o muore o impazzisce, a meno ancora che non muoia pazzo.

Ma se avanti che la sua ragione svanisca il disgraziato ha un momento di collera, o un movimento di rivolta, i carcerieri sanno come domarlo. Gli mettono subito la camicia di forza, cioè una camicia colle maniche chiuse all’estremità delle quali sono fissate due anella, con cui si mantengono le braccia incrociate sul petto. Se il paziente protesta ancora si ricorre ai ferri corti.

I ferri sono delle manette, ma un po’ più larghe, affinchè vi si possano introdurre e congiungere mani e piedi. Il condannato è quindi costretto a restare in un banco a schiena d’asino, ripiegato in due,