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A questo punto si domandò l’autonomia della Sicilia la divisione delle due Sicilie dal congresso di Vienna riunite. Rispondeva il vicario per ciò rimettersi alla maggioranza dell’isola, che ne sarebbe richiesta, ma contemporaneamente spediva contro un esercito comandato dal generale Florestano Pepe, fratello a Guglielmo; e di più nominava luogotenente, invece di Settimo, il principe di Scaletta, il quale essendo nato e dimorante a Messina, serviva ad aizzare vieppiù le ire municipali in quel frattempo accanitissime fra Messina e Palermo.

I napoletani, sempre amanti della libertà e prodighi all’Italia di vittime e di martiri, mal soffrivano che Sicilia possedesse ciò ch’essi avevano sempre desiderato. E il progetto del governo borbonico di render deboli i napoletani e i siciliani, rivolgendo gli uni contro gli altri, ebbe il successo che dal tiranno si voleva.

Difatti dieci mila continentali guidati dal Pepe erano sbarcati a Milazzo e dopo lungo viaggio erano già entrati nella provincia di Palermo, mentre metà dell’isola lottava contro l’altra metà e mentre nella capitale la plebe teneva il broncio alla borghesia.

La giunta provvisoria, dove il Ruggero Settimo sedeva a vice-presidente, seppe allora dai propri inviati che ritornavano da Napoli, il generale Florestano Pepe avere istruzioni moderate, e l’autonomia insulare venire riconosciuta ogni qual volta la maggioranza lo volesse. Ed il generale avendo confermata la sua missione nel medesimo tenore, il governo di Palermo condiscese a venire a trattative, ed all’uopo si stabilì tregua, ed il principe di Villafranca fu spedito a Cefalù per abboccarsi col comandante in capo l’esercito napoletano.

O per isbaglio, o per tradimento, questo più probabile di quello, la flottiglia borbonica batteva intanto nel mare di Solanto otto barche cannoniere che accompagnavano il Villafranca. La qual novella arrivando a Palermo vi risvegliava rumore indicibile, non che ogni sorta di dubbi, giustificali per altro dal passato, sicchè il popolo ammutinandosi ad un tratto e sospettando, nella foga della diffidenza, anche della bor-