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Sesia, a Genova i repubblicani erano in aperta rivoluzione. Si prese Genova colla forza, si allontanò l’Austria con gli accordi. Il firmarli, ove si risguardi alla mia vita, fu per me un atto di abnegazione. La Camera dei deputati, irritrosendo, fu sciolta. Gli elettori mandarono nomini che fecero della sorte saviezza. La fede rinacque; l’idea della Monarchia costituzionale fu salva.

«Nel 1850 e nel 1851 il partito del movimento, fidando nel governo e nella corona, non tentò novità; il partito del regresso aveva sugli occhi lo spettro del 1852 e non osava fiatare. Venne il 2 dicembre.

I nemici della libertà esultarono. Si levarono a speranze che il tempo forse mostrerà false.

«Per tutti questi rivolgimenti degli uomini e della fortuna io fui sempre quel desso. Dacchè cominciai a pensare, la mia politica è sempre stata la stessa; la politica cioè della giustizia, e perciò della libertà; la politica della dignità e perciò dell’indipendenza.

«Quando l’opinione trascorrea agli eccessi o della rivoluzione o del regresso, io la combatteva. Scrissi la lettera agli elettori di Strambino, ma scrissi ancora gli ultimi casi di Romagna. Combattei il partito demagogico, e per combatterlo, a Pisa mi trovai stretto tra i birri e d velti andarmene per Maremma; in altri luoghi mi trovai minaccialo dal popolo. Ora il pericolo è altrove.»

Queste energiche e schiette parole, proferite con quell’accento che le fa sentire emanate dal cuore, furono accolte nell’Aula senatoria dai segui della più viva approvazione.

Ricorderemo la missione confidata all’Azeglio dopo la pace di Villafranca presso il gabinetto di S. James, da lui adempiuta con esito favorevole, e l’incarico, forse non troppo consentaneo alla sua indole ed ai suoi mezzi, di governatore della città di Milano ch’egli non sostenne a lungo.

Concluderemo dicendo, che si può perdonare qualche menda e qualche errore ad uno spirito sì elevato, ad un carattere sì puro e sì devoto alla patria quale si è quello di Massimo d’Azeglio.