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notato ch’ei sostenne la dolorosissima amputazione della disarticolazione e del taglio dei muscoli e dei tendini, non gettando un lamento e gridando esso pure come i morenti del campo: viva l’Italia! Rientrato a Firenze per continuare la cura necessaria della sua ferita, gli venne affidato il comando supremo della guardia nazionale, ch’ei tenne fino al momento della fuga di Leopoldo II della Toscana.

Da quell’istante in poi il Chigi rientrò nella vita privata dalla quale non è più uscito che per incarichi conferitogli dal Comune e dalla Provincia e per ricevere dal Re d’Italia, figlio del sovrano sotto l’augusta bandiera del quale egli ha fatte le sue prime armi, la dignità senatoriale.





È un prode soldato piemontese che ha acquistati tutti i suoi gradi colla punta della sua spada nelle campagne d’Italia e di Crimea. Dopo essere stato eletto deputato per la giusta e meritata fiducia che gl’italiani a qualsiasi provincia appartengono, debbono avere in sì onesto e valoroso guerriero, egli ricevette dal Governo del Re una missione alla verità spinosissima, delicatissima e pur tanto urgentissima la qual si fu quella di fare in modo che i soverchiamente numerosi renitenti alla leva dell’isola di Sicilia, avessero a presentarsi e ad essere incorporati nell’armata nazionale.

Si sa che la Sicilia non era abituata alla leva, che, per antico privilegio, i Borboni non potevano imporla. Quindi niuna meraviglia che l’imposta del sangue ispirasse una viva repugnanza ai Siciliani, quantunque questo sangue per la salute stessa della patria comune lor venisse richiesto.

Benchè gli uomini i più patriotici e i più influenti di quella generosa terra, si adoperassero a vincere