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tori di un movimento che valesse a scuotere il giogo ogni di più insopportabile.

Venne il 1848 e il Del Giudice fu di quelli che si misero con tutta l’abnegazione e lo slancio possibile in quel moto che dette tanta speranza agl’Italiani e che per disgrazia non riusci ad altro che a stragi, a condanne e a prigionie. E di ciò devesi saper buon grado al Del Giudice, giacchè in un paese ove per isventura l’asservimento datava da lungi non era cosa agevole il determinarsi a rompere in faccia senza ritegno all’oppressore secolare, e molti che pure avrebbero posseduti i mezzi di sostenere egregiamente la causa patria, e che in cuor loro sarebbesi sentiti dispostissimi a farlo, non si arrischiarono mai a dichiararsi con franchezza dando così ansa al partito del re, e scoraggiando e nuocendo d’altrettanto a quello che sosteneva gl’incontrovertibili dritti della nazione.

Il Del Giudice si recò di persona al campo degl’insorti, e vi addusse due piccoli cannoni di bronzo ch’egli aveva nel suo castello, e che poscia caddero in mano delle truppe borboniche.

Si può immaginare una volta compiuto il massacro del 15 maggio, se il Governo di Ferdinando II cui quel grand’uomo di stato inglese, il Gladestone caratterizzò di negazione d’Iddio si desse à perseguitare il barone Del Giudice!

Per sentenza pronunciata dal tribunale di Cosenza, (si sa cosa fossero quei tribunali, e con quanta giustizia date le sentenze che emanavano da essi!) il nostro protagonista venne condannato ai ferri.

Nel tempo in cui scontava una pena che forma oggi uno dei più bei titoli alla benemerenza dei suoi concittadini, ebbe notizia che il genitore della propria consorte, dal quale era amato con amore proprio paterno, stavasi per morire di crudelissima irremediabile malattia.

Non è a dire quanto ardesse di desiderio di riabbracciarlo prima del momento funesto in cui la tomba per sempre glielo rapisse. — Chiese, supplico, perchè sotto scorta gli fosse concesso di riabbracciarlo, ma in vano, che i suoi custodi si mostrarono sordi alle cal-