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sotto quello della devozione da essi dimostrato in più di una circostanza alla patria, che non consentono ad ammettere la ragionevolezza e la irresistibilità, (serviamoci di questa parola) dell’aspirazione nazionale, che come cemento securo del grande edificio della patria e del coronamento di questo, tende a recare la capitale stabile e duratura d’Italia, nelle eterne città che fu un giorno madre e sovrana delle nazioni.

Cotesti personaggi ritengono che invece di giovare all’unità e all’indipendenza della rigenerata nazione, cotesta aspirazione verso Roma, non possa condurci ad altro, che a finire di metterci in contrasto assoluto col Pontefice, contrasto dal quale potrebbe derivare uno scisma religioso che produrrebbe gravissimi perturbamenti nel popolo italiano.

L’opinione di coteste egregie individualità, le quali hanno d’altronde in moltissime circostanze dato saggio di un patriottismo, il quale non potrebbe essere in verun modo messo in dubbio, ha il torto, a parer nostro, di basarsi sopra un esagerato timore di conflagrazioni, le quali non saranno per prodursi. Bisogna credere che si possa conseguire l’intento propostosi dalla grande maggioranza degl’Italiani, senza che vi debba esser luogo a toccare a quella santissima cosa, che è la religione cattolica.

Il conte di Cavour, che, come tutti sappiamo, era uomo pratico per eccellenza e che certo non avrebbe mai consentito che la grand’opera della costituzione italiana, potesse esser messa a repentaglio da discordie intestine, fossero poi civili o religiose, non ha messa fuora la famosa formola da tutti ormai conosciuta: «Chiesa libera in libero stato» , senza che egli andasse convinto, mediante l’applicazione di quella, potersi appunto ovviare ad ogni conflitto, e prima e poi pervenire a collocarsi sul terreno di una dure vole conciliazione.

Nulladimeno la gran teoria che in politica bisogna, per quanto si può lasciare piena libertà alle opinioni quando, bene inteso, queste emanano dalla coscienza, deve tanto più valere verso gli uomini, di cui sopra