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mia stanza e stava sdrajato sopra un sofà; al bujo, sonnecchiando. La mia casa è situata circa trecento passi distante dalla strada postale che da Mantova conduce a Modena. La strada è soda, cosicchè le carrozze correndovi sopra fanno gran rumore. Io odo un suono lontano di carrozze; il suono s’appressa; corro alla finestra; veggo due carrozze entrar nel viale. Scendo precipitosamente la scala, ed ai piedi di essa trovo cinque persone, una delle quali in uniforme colla spada al fianco. Comprendo bene chi sono, immagino a che vengono, ma pure lo chiedo loro. Uno di essi risponde:

«— Siamo messi del governo, ed abbiamo ordine di visitare le di lei carte.

«Io li conduco per tutta la casa. Carte non ne trovano; e non ve n’erano.

«— Ora, dice quegli che avea già parlato, conviene ch’ella venga con noi a Mantova, dobbiamo visitare anche la di lei casa di città.

«Offrii loro da pranzo, non accettarono. Feci portar dei rinfreschi, ne presero. Io li trattai, insomma, o fosse sentimento esagerato dei doveri dell’ospitalità, o vanità di mostrarmi uomo superiore a qualunque vicenda, o piacere di far contrastare la mia condotta coll’ufficio ch’essi adempivano (e v’era forse un po’ di tutto ciò) io li trattai piuttosto come ospiti che come stromenti di sciagura. Io faceva il disinvolto, ma soffriva assai; ed ora, quindici anni dopo — le memorie dell’Arrivabene furono scritte nel 1836 – nel ritornare, nel fermarmi col pensiero su quel momento, un brivido mi scorre per le vene. Gli amici, i domestici erano ammutoliti. Montai in carrozza e andai a Mantova con quella dura compagnia.»

Sebbene la perquisizione praticata dagli agenti di polizia nel palazzo del nostro autore in città non avesse resultato per essi migliore di quella operata alla Zaita, tuttavia l’Arrivabene, dopo aver trascorsa la notte in sua casa, ma guardato a vista, viene l’indomani mattina, in compagnia di due gendarmi e d’un commissario, inviato a Venezia, ove doveva, erasegli detto, comparire dinanzi una Commissione che avea per