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samente alle prese coll’autorità civile e con la militare dello straniero, e le condusse coll’imperiosità del diritto inerme a scrivere il patto della cessione, senza il qual patto, e la presa dell’arsenale e tutte le altre mosse non solo riuscivano vane, ma provocavano sulla città gli estremi flagelli.

«Di così grande benemerenza non fece il nobile cittadino, nonchè strumento di ambizione, nè mostra, e si raccolse nella vita privata, pur sempre operosamente ajutando ai bisogni e alla dignità della patria; e semprechè il bene di essa lo volesse, a coloro da cui dissentiva si accostò generoso. Il primo avvocato di Venezia e del Veneto sofferse gli ozi disagiati dell’esilio decenne; egli, già uso a fruire i vantaggi legittimi della ricchezza, e dell’autorità e della fama, seppe, nell’età sua già grave, viversene ragguardevole nella sua stessa oscurità, senza vanto e senza querela. Queste cose dicendo, io so d’essere interprete della coscienza e della gratitudine dei Veneziani; e godo che questa occasione solenne mi si offra di dirlo ad uomini qual voi siete.»

Sappiamo di buon luogo che allorchè il barone Avesani lesse queste espressioni, dettate da un suo avversario politico, e che a caso gli capitarono sott’occhio verso la metà del successivo agosto, ne provò sì viva emozione che le lagrime gli bagnaron le ciglia ed ebbe a esclamare:

«— Le parole del Tommaseo bramerei mi servissero un giorno d’orazione funebre!»





Nato in Milano il 29 agosto del 1803 dal conte Francesco e dalla contessa Daria Oppizzoni, egli fece privatamente i suoi studi e visse vita privata fino all’anno 1838, in cui cominciò a prender parte alle pubbliche faccende coll’esser chiamato a far parte del municipio in qualità d’assessore.