Pagina:Campanella, Tommaso – Poesie, 1938 – BEIC 1778417.djvu/304

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298 nota


che se dicesse venti non si apporrebbe male (et si dicam viginti annos, non mentiar).

Bisogna allora risalire nel computo degli anni di prigionia continua all’anno 1587? Evidentemente ciò è inammissibile; ma il valore di tutto il brano come strumento di un computo esatto resta inficiato. Ci troviamo davanti ad un’amplificazione rettorica, ad uno sfogo del povero prigioniero e nulla piú.

Tanto vero che quando riprende il medesimo motivo nella lettera al Quarengo, e vuol precisare meglio le cose, distingue tra la sua vita perseguitata in genere e l’ultima e presente prigionia. Le mie sciagure, egli dice, cominciarono da quando avevo diciott’anni e scrissi contro Aristotile (questo ci porta su per giú ai víginta annos della lettera allo Scioppio); ma «il colmo» giunse ai miei ventitré anni; e qui ritorniamo alla data del 1591, ma del tempo in cui «fui perseguitato e calunniato», non messo in carcere perpetuo. Finalmente: «son otto anni continui che sto in man di nemici»; e qui abbiamo il computo esatto della sua ultima carcerazione, dal 1599.

Molte altre volte, del resto, e per ragioni che riguardano piú da vicino la sua persona e la sua sorte, il Campanella numera i suoi anni di prigionia e li numera sempre, senza nessuna eccezione, a partire dall’anno 15991.

Quando dunque nella canzone a Berillo numera in modo chiaro e in forma prosastica «quattordici anni» di prigionia, non è possibile dare al computo un valore diverso da quello dato costantemente dal Campanella le altre e numerose volte che ha fatto il medesimo computo, e preferirgli un computo fondato su di una figura poetica, qual’è l’allusione mitologica a Prometeo.

È poi sicuro che il Campanella si sia servito di quella immagine esclusivamente negli anni tra il 1604 e il 1608, e che appena

  1. Un altro computo esplicito trovasi nelle Orazioni tre in Salmodia metafisicale; dove (Canz. I, madr. 3, v. 14; canz. III, madr. 6, v. 6) parla di dodici anni di prigionia, e queste orazioni sono del 1611 (vediAm. Cast., I, pp. 144-45 ) allo stesso modo che il memoriale a Paolo V, della fine di quell’anno, dove, parafrasando nel preambolo i vv. dei due madr. sopra citt. allude anche ai «duodecim annos passionis» (vedi T. C., Lettere, ed. cit., pp. 170-71). Così egualmente nella lettera Al Papa ed a’ cardinali, che è del 12 aprile 1607, parla di otto anni di prigionia (op. cit., p. 59), nell’altra a Paolo V dello stesso anno dice: «Sendo stato io otto anni in una fossa etc.» (op. cit., p. 52), e due anni dopo, nella Lettera a Paolo V, a Rodolfo II etc.: «Si dice che fra T. C.... non convinto né confesso... di ribellione, per la quale son dieci anni ch’è carcerato» (op. cit., p. 156).