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tardivo svegliarsi di dignità, ch’ei non riusciva a palesare, che mai valeva?

E quando Giacinta, aggrappandoglisi febbrilmente al collo, gli scottava la pelle del volto con le labbra di fuoco, e gli ripeteva angosciosamente: «Fingi almeno! Sappimi ingannare!» egli s’ingegnava di mentire con tanta buona volontà, che spesso arrivava fino a ingannare sè medesimo.

Non lei!

Giacinta, una mattina, aveva fatto chiamare il dottor Follini, che da una settimana non la visitava.

— Dottore, non dormo più. Mi dia nuovamente cloralio!

La voce era tremula, le mani convulse.

Il Follini le gittò addosso uno sguardo scrutatore, di scienziato all’erta:

— La crisi? Se l’aspettava da un pezzo.

— Com’è vigliacco quell’uomo! — disse Giacinta, nascondendo la faccia tra le mani.

— O dunque?

— Che importa? Dev’esser mio!... Sarà mio per sempre!

E continuava, a scatti, compiendo con l’efficacia della voce e del gesto il rapido accenno della parola:

— Potevo essere anch’io un modello di moglie... Oh, provo orrore di me stessa... Ma ho bisogno di lui. E saprò farmi amare; non sono donna per nulla: vedrà... Questo pure è un nuvolo passeggero... Mi faccia dormire, intanto. Oh! La mia povera testa riposi almeno la notte!... Lo crederà? Mi era stato detto d’una vecchia, d’una specie di maga, che prepara dei filtri d’amore (rida pure, divento superstiziosa come una femminuccia!) e sono andata da lei. Una stamberga umida e buia. Tremavo dalla paura dinanzi alla brutta megera; ma le sue parole