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ta (è avvenuto con la ceramica, con la seta, ad esempio). Ma non per ogni cosa tenere il segreto era possibile, alcune invenzioni erano auto-evidenti a partire dal prodotto in sé. Se l’efficienza di una macchina a vapore veniva aumentata facendo passare nella caldaia tubi dell’aria calda, era sufficiente comprare una locomotiva, smontarla e vedere come funzionava (oggi si chiamerebbe “reverse engineering”). Inoltre, tenere segreta una tecnologia non consente ad altri di poterla migliorare: da un punto di vista dell’economia generale affidarsi al segreto non è efficiente per l’innovazione tecnologica. Ecco che intorno alla seconda metà del sedicesimo secolo inizia a fare la sua apparizione in maniera significativa una diversa protezione, quella delle invenzioni industriali, con i brevetti. Un brevetto consente una privativa sullo sfruttamento di una determinata invenzione, a patto di averla completamente descritta, e solo per un limitato periodo di tempo, dopo di che entra nel “pubblico dominio”. La teoria classica prevede che ciò crei un incentivo a intensificare la ricerca e lo sviluppo della tecnica, incentivo costituito dalla promessa di ottenere un limitato monopolio, rendendo un bene scarso ciò che altrimenti sarebbe naturalmente un bene illimitatamente disponibile, ovvero un’idea resa pubblica. È infatti un monopolio la privativa che queste leggi creano, dando a un soggetto il diritto arbitrario di decidere come sfruttare (con alcuni limiti) le proprie creazioni. Diritti che possono essere trasferiti a titolo originario o derivato (licenze).

E ciò sembrò una cosa talmente buona che il sistema è pervenuto a noi sostanzialmente invariato sino ad oggi. A nessuno pare vero di poter creare, con un colpo di penna, valori economici dal nulla: i “beni