Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/168

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III

Misera etá, senno e valore impari da si malvagio e da si folle, a cui sembran follie, da Cadmo insino a nui, quanti son (fuor de’ suoi) scritti piú rari.

Santi lumi del vero, eterni e chiari, qual fa nero destin che si v’abbui e vi spenga la nebbia di costui?

Tanto ne son del sole i raggi avari?

Tanto un cieco presume? un che la luce ne ’nvidia? un, che da via si piana e trita per labirinti a Lete ne conduce?

E presume guidarne, e tór di vita chi non l’ha per un Argo e per suo duce? Arroganza degli uomini infinita !

IV

Arroganza degli uomini infinita, che la natura in servitute adduce: e lei, ch’a tutti eternamente luce, in un sol lume ha giá spenta e finita,

Anima santa, al quarto ciel salita, fuor dell’error che ’1 mortai velo induce, vedi quanta eresia qua giú produce questa furia, onde sei del mondo uscita.

Che per far vero il falso e dubbio il certo, ha te, spirto si chiaro e si benigno, a dira morte indegnamente offerto.

Or, s’io m’inaspro e se da me traligno, è perché faggio indarno assai sofferto, lingua ria, pensier fello, oprar maligno.