Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/20

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IV

«Del tuo nome dipinti». Io so che l’alloro, consecrato a Febo, non è offeso dal sole, o piú tosto dal gielo; ma non so giá che albero o erba porti il nome dipinto del sole, come porta quel di Aiace e di Giacinto; i quali nomi non defendono la predetta erba dal sole: perché questa mi pare una vanitá.

v

«Per me non oso». Se avea chiamate le muse, non so perché dica questo, o inviti altrui che loro, o, invitandolo, non dica la ragione perché esse non siano suffizienti.

vi

«Ragioni o scriva». «O pensi, o scriva», avrebbe detto il Petrarca.

VII

«Giace quasi gran conca», ecc. Il letto della Francia non è piú basso dell’onde de’ mari. Non è fra due monti, se non men che propriamente parlando. Laonde si vede quanto vanamente sia detto «conca». Ora bisognava aiutar questa traslazione col simigliarla alla conca marina di Venere o a quella delle perle.

vili

«Amene». Come è detto, non è parola da usare; ma, posto che fosse, non si direbbe di tesori e di popoli.

IX

«Novella Berecintia», ecc. Strano trapasso, senza consolazione, da paese a iddee: né credo che se ne mostrasse essempio appresso a lodato scrittore.

x

«Galli interi». Motto poco degno e contenente disonestá.