Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/259

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Procuratore. Che insolenza è questa vostra? Non vedete di esser in cospetto del principe?

Giordano. Come «del principe»?

Procuratore. State saldo. Che avete voi da far con costui?

Giordano. Che ha da far Gisippo con la mia donna?

Demetrio. Prattica solamente di onesto matrimonio: ma voi perché li tenete e gli sforzate la sua?

Giordano. Qual sua?

Demetrio.- La Giuletta.

Giordano. Che Giuletta?

Demetrio. L’Agatina, intendo, che la dimandate.

Giordano. Io conosco l’Agatina per ischiava di Marabeo e non per donna di Gisippo.

Demetrio. E Gisippo non conosce voi per marito di madonna Argentina.

Giordano. Io sono pure.

Demetrio. Se voi séte, non eravate al creder d’ognuno, non che nostro.

Procuratore. Cavalier, non si vuol essere cosi precipitoso alla morte degli uomini.

Giordano. Dunque, volete voi ch’un gentiluomo mio pari, nella sua patria, nella sua casa, sofferisca di esser offeso nell’onore della donna e della persona sua stessa da uomini vili e forestieri, come sono questi?

Demetrio. Cavalier, parlate onesto: intendete la cosa a sangue freddo; ché noi non vi avemo fatto niuna delle ingiurie che voi dite. E quanto al tenerci per uomini vili, voi ci avete fatta tal superchieria che, per forestieri che siamo, vi mostreremo presto chi sono i Coresi e i Canali di Scio, due casati ingiuriati da voi.

Giordano. Oh! questa sará bella, che ci vogliate tórre i casati, come ci volevi tór la moglie e la robba.

Demetrio. Perché? Séte dei Coresi, voi?

Giordano. Si, se voi volete.

Procuratore. E dei Canali?

Giordano. È la donna che noi avevamo tolta.