Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/357

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rozza, non sapeva né la cagione né il rimedio; come incauta, non l’aveva potuto schifare; come tenera, non lo poteva sostenere; ed era sola, e non aveva chi l’aiutasse né chi la consigliasse. Fuor di se stessa, con gli occhi fissi alla grotta e con l’orecchie intente alle voci, si stava per lungo spazio immobile; ora, quasi infuriata d’intorno al lago aggirandosi, a guisa di vedova tortorella, la perduta compagnia con doglioso gemito richiamava, e, fra se medesima pensando, diceva: — Oimè! che, se fosse vivo, sarebbe tornato; che, se fosse morto, non mi avrebbe chiamata. Ma se la voce, che mi chiamò, fu sua, perché ora non mi risponde? Se fu delle ninfe, perché diversa da quella che mi rispondono? Oimè! che le ninfe son quelle che non lo lasciano né tornar, né rispondere ! Oimè ! che gli faranno qualche strazio, per esser forse entrato nel bagno; e forse che le sue bellezze son loro piaciute, forse cíie piace loro di vederlo notare, e per questo lo ritengono. Ma si fuggirá poi! Fuggiti, Dafni, fuggiti. Oimè! che non si curerá forse di ritornare. Ma egli ha pur lasciato il tabarro; si dovrá pur ricordar della sampogna; penserá pure che le sue capre son senza guardia. — E, pur non tornando, fra dubitar che fosse morto e creder che le si togliesse vivo, dolente e gelosa non cessava di richiamarlo.