Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/36

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siano favorevoli in questo giudizio: di poi, perché voi non volete che, vivente voi, viva niuno altro che meriti pur di venire in cospetto vostro; e non c’è nessuno, per buon dicitor che sia, che non abbia bisogno, appresso di voi, delle medesime difese del Caro. E però torniamo a quelli che, per esser morti e per esser maestri de’ maestri, conviene o che necessariamente crediate loro, o che per molto arrogante e del tutto pazzo vi facciate conoscere. Se Aristotile adunque dice quello ch’avete inteso delle parole peregrine; se loda Euripide, che del commun uso di parlar insegnasse di far la scelta delle parole; se, dicendo Alcibiade, appresso di Platone, d’aver imparato dal volgo di ben parlare, Socrate l’appruova per buon maestro, e per laudabile ancora in questa dottrina; se poi soggiunge che, per voler fare un dotto in questa parte, bisogna mandarlo a imparar dal popolo; se Dionisio alicarnasseo lauda Lisia, come ottima regola del parlare ateniese, aggiungendo «non dell’antico che usava Platone e Tucidide», ma di quello che correva in quel tempo; se Favorino, appresso di Gellio, in riprension d’un certo, dice: «Vivi all’antica e parla alla moderna»; se si truova in Lucrezio:

Multa novis verbis praesertim cum sit agendum propter egestatem linguae et rerum novitatem \

se Orazio nelle Pistole chiama l’uso «padre delle parole»; se nella Poetica dice:

. Licitit, sernperque licebit

signatum praesente nota procudere nomen ;

se nel medesimo loco lo concede con questa eccezione:

... si volet usus,

quem penes arbiirium est, et ius, et norma loquendi’,

se Aristide afferma che i poeti son tiranni delle dizioni ; se Demetrio vuole che l’onomatopea sia propria de’ poeti; se da Varrone avemo: «Quod non eadem oratoris et poeiae. Quod eorum