Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/40

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si allegheranno poi, siano buone e accettate dagli altri. Ma pogniamo ancora che ’l Petrarca non si volesse valere di queste voci perché non gli piacessero. Non si truovano di finissimi gusti, che non assaporano i poponi e che non beono vino? e di perfettissimi odorati che abborriscono le rose? Per questo le rose, il vino ed i poponi non sono buone cose, perché a questi tali non aggradano? Ma come è possibile che voi vogliate che un autore, per molto che scriva, possa mettere in opera tutti i vocaboli dell’etá sua, che non ne lasci indietro ancora molti di quelli che sono ottimi? Che gli scrittori dopo loro siano privi e di quelli che essi hanno lasciati, e di quelli che non erano ancora a tempo loro? Oltre a ciò, che il Petrarca abbia tolto agli altri quel c’ ha fatto esso medesimo? che una lingua sia tutta in uno autor solo? che un solo la giudichi? un solo la finisca? Questo è sentir nella lingua quel medesimo appunto che nella fede: cioè che nel Petrarca e nel Boccaccio si termini tutta la favella volgare, come negli Evangeli ed in san Paolo tutta la sacra Scrittura. Io vi ricordo che ancora qui bisogna credere che v’abbiano loco le tradizioni de’ padri, e di piú quelle delle madri e dell’universale, infin ch’ella vive, come s’è detto. Vi replico la terza volta, «fin ch’ella vive», perché qui sta l’errore che avete preso, di credere che in questa lingua si debba fare come nella greca e nella latina; le quali essendo morte quanto all’uso del parlar commune, è necessario che si scrivano cavando dagli scritti de’ pochi ed imitando i migliori, non potendosi da noi conoscere la forza né la bellezza lor naturale. Ma in questa, che naturalmente o communemente si parla e s’intende da tutti e che viva e nuda interamente e in ogni sua parte ci si mostra, che giudizio è il vostro a pensare che necessariamente si debba cavar dagli scritti di un solo, e non anco da molti che la parlano e la scrivono; essendo per assoluto precetto avertiti : «Quod is qui maxime, non etiam unus imitandus est?».

Mi potreste qui replicare: — Dunque ognuno ha da parlare a suo modo; e non ci accaggiono piú né regole, né essempi, né idee di ben parlare? — Avertíte ch’io voglio tutte queste cose; ma