Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/78

Da Wikisource.

di queste openioni; ché per l’una e per l’altra vi si mostrerá che questo motto del Caro non è cosi «poco degno» né «contenente disonestá», come voi dite: percioché, se volete che la bruttezza stia nella cosa, lasciando star anco questa massima degli stoici, che «nihil obscoenum, nihil turpe die tu», e concedendovi, come io credo veramente, che il dir cose brutte bruttamente sia brutta cosa; vi domanderò se, per brutte che siano, è lecito descriverle onestamente. Se lo negate, io vi metterò innanzi tutti quelli c’hanno scritto mai, e gli piú gravi e piú severi di loro, che indifferentemente scrivono le cose brutte e disoneste con oneste parole. E Marco Tullio stesso n’allega molti essempi. Ma, restringendomi a questo stesso concetto del Caro, che i Galli di Cibele fossero castrati e che questi non siano, non è lecito a dirlo? Non l’hanno detto tanti poeti innanzi a lui? Non fa a proposito di questo loco? Non è anco necessario per fare i suoi, superiori di virilitá? E se tutti si posson dire, ed è stato detto dagli altri, e torna bene che si dica in questo loco: perché non lo può dire anco il Caro? Se volete che la bruttezza stia nella parola, vi domanderò che vuol dire «intero», e quel che ha di laido in sé. Secondo il medesimo Aristotile, la bruttezza delle parole o sta nel suono o sta nel significato: nel suono, non potete dire che stia in questa, essendo dolce e sonora a pronunziarla; nel significato, meno, percioché, o all’anima o al corpo che si referisca, e a qualunche senso si rappresenti, non solamente non mostra cosa alcuna di brutto, ma significa perfezione. Or, se questa bruttezza non è nella parola, non è nel significato propio di essa parola, e nel significato metaforico è concesso ad ognuno; dove sta la poca dignitá e la disonestá di questo motto? Bisogna che per forza vi riduciate al terzo modo d’Aristotile, e che con la misura in mano mostriate che con altre parole si possa dir piú onestamente che con questa. Il che quando arete anco provato, sará nonnulla; perché dirò che basta l’assai, e che al piú non siamo tenuti. Quando la cosa è brutta, ci s’insegna che fuggiamo la propria voce che la significa; e qui la propria voce s’è fuggita: ci s’insegna che ne pigliamo un’altra per significarla metaforicamente e velatamente;