Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/88

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qua; ché vedrete come questa metafora non cade in «serva e distrutta». Se la metafora discordasse nei termini suoi stessi, come se dicesse che questo raggio la libererá e salverá; forse potreste dire che fosse viziosa. Dico «forse», perché non è per aventura tanto lontana quanto vi pare: ma, trapassando in altri termini, fuor del suggetto e predicato suo primo, che vizio ci può egli essere? Percioché dice che, se questo «raggio si stende mai ver’ lei» e intoppando in questa quasi parentesi «benché serva e distrutta», senza punto fermarsi salta in quel «n’attende»: per modo che questo raggio non fa né salute né libertá, ma speranza di salvarsi e di liberarsi. E se miraste bene alla pregnezza di quella particella «né», vi trovereste dentro quella forza che disgiunge l’uno di questi termini dall’altro. E in simili casi bisognerebbe che consideraste le minuzie delle cose, dove son gioie e fanno momento assai, e non dove sono lendini e non montano un frullo, come quelle che considerate voi. Il raggio di questo sole, perché non può egli far questo effetto di muovere a sperare? E perché la speranza non può nascer da ogni cosa favorevole? Che risposta ha «fiume» con «tela»? E pur dice il Petrarca:

Ond’ei suol trar di lagrime tal fiume, per accorciar del mio viver la tela, che non pur ponte o guado, ecc.

Non vedete che, si come il fiume del Petrarca trapassa la tela, cosi il raggio del Caro trapassa «serva e distrutta»? Se «serva» ha la sua risposta in «libertá» e «distrutta» in «salute», e ciascuna vi cade per se stessa; perché lo volete tirar cosi sforzatamente a «raggio», se non perché siete restio dalla man buona, e per vaghezza di trovar nelle cose quel che non v’è di male, fate ogni cosa per guastare quel che v’è di bene?

Castelvetro—Opposizion XV

«Quasi lunge dal sol». Parla cose contrarie, dicendo poco appresso: «Qual ha Febo di te cosa piú degna? In te vive, in te regna Col tuo il suo bel lume».