Pagina:Caterina da Siena – Libro della divina dottrina, 1912 – BEIC 1785736.djvu/413

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varianti; ma, per la maggior parte, le tolse dal codice laurenziano gaddiano, e qualcuna di esse trova riscontro negli incunaboli. Ebbe soltanto il torto di non renderne conto, ma gli è di scusa l’usanza del suo tempo.

Un’omissione inesplicabile si riscontra però nella sua edizione. Il capitolo lxxxiii è mutilo piú che della metá, e Plxxxiv manca, in principio, di un lungo brano, si che non collegano tra di loro; e quindi fu messa al capitolo lxxxiv una rubrica diversa da quella che leggesi nei manoscritti.

Ma ciò che rende l’edizione del Gigli d’impossibile lettura, sono le troppe e mal disposte virgole, le quali fanno continuo intoppo, senza riuscire a distrigare i lunghi periodi; i quali appariscono anche piú interminabili a causa della soverchia distanza fra un capoverso e l’altro, per la quale a chi legge non si concede riposo.

Era dunque necessaria una nuova edizione, non solo perché quella del Gigli naturalmente non si trova se non nelle pubbliche biblioteche, ma anche per dare il Libro nella sua vera lezione e con punteggiatura che ne agevolasse la comprensione. A conseguire siffatto intento, esso non poteva venir meglio allogato che in questa collezione degli Scrittori d’Italia.

Questa nuova edizione, dunque, è stata fedelmente condotta sullo stesso codice di cui si servi Girolamo Gigli, e che trovasi nella Comunale di Siena con la segnatura t. ii. 9. E con vera soddisfazione posso dire che l’autorevole parere del Gigli, che mi fu prima guida nella scelta, è stato confermato dalle osservazioni che ho fatte io stessa, confrontando questo ms. con altri. È vero che non ho potuto avere a mia disposizione tutti i codici del Libro-, ma, avendone tenuti sott’occhio quattro laurenziani, tre riccardiani, due della Nazionale di Firenze e uno della biblioteca Landau, non che la versione latina del Maconi, ho potuto raccogliere elementi sufficienti per un retto giudizio. Ho notato, dunque, che questo codice t. ii. 9, solo fra gli altri sopra nominati, serba intatte tutte le ingenuitá delle espressioni, certe in congruenze nei periodi, i pleonasmi e gli idiotismi delle voci e specialmente dei modi che sono propri del parlare dei popolani. Perché Caterina, com’è noto, era di nascita popolana, e, con tutto il suo straordinario ingegno, sapeva appena leggere e meno ancora scrivere; si che le mirabili sue lettere, che il Tommaseo chiamò «monumento di sapienza» furono da lei dettate ai suoi