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I TEMPI DI CATULLO


I.


A giudicare dall’apparenza, la repubblica romana non poteva essere nè più forte nè più temuta. Soggiogata tutta quanta la penisola italica, domata, se non vinta del tutto, la Spagna; asservita la Grecia e la Gallia transalpina; penetrata l’Africa fino in Getulia, l’Asia fino alle vallate del Fasi e alle falde meridionali del Caucaso; sottomesse la Siria, la Palestina, tutte le rive del Mediterraneo, fuorchè l’Egitto, Roma non è ancor paga di tante conquiste; ha paura, come Alessandro, che la terra sia troppo angusta alle sue vittorie; la guerra, già suo istinto, è divenuta abitudine e necessità. Giulio Cesare viene; sparge il dissidio fra’ Galli; arresta le invasioni degli Elveti; scompiglia le armi di Ariovisto; passa trionfando fra i ghiacci dei Gebenni, le selve e le paludi del Sabi, le rovine e le fiamme del Vercingetorige, non senza ardimento di afferrare, nel plenilunio, le contese sponde britanniche, sfidare le sacre falci dei druidi, calpestare i loro santuari misteriosi, addensando sul loro indomito capo assai più tremende tempeste di quelle, che le nove vergini di Sain