Pagina:Commedia - Inferno (Tommaseo).djvu/373

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CANTO XX. 237 crìfizii e di soni. Onde Virgilio, dell' usule Evandro: Me pulsumpa- tria . . . . Fortuna omnipottiiis ci ineluctabile falurn Ilis posile re loda , rnalrisque egcre Iromendu Carmentia Nymphaemonila,el Di'ua auclor Apollo il). E di questi conf^eiii l' Eneide è piena; e gli amichi scris- sero molti e luncriii tratiali intorno alle origini della città. Dante, ac- cennando come gli uomini sparli intorno s' accogliessero a quel luogo eh' era forte per il pantano che aveva da tutte le parli, si nnjstra non inconscio di quello i:he accompagnò le origini di parecchie cillàe Stati illustri, segnatamente d'Atene, Roma e Venezia; dico il raccogliersi d'uomini di varie genti nel luogo medesimo, e formare un popolo, che non sempre fa nazione , anzi della nazione impedisce o ritarda r unitcà. Tra' più notabili passi della Tebaide, lavoro di retore, ma retore di ricco ingegno e d' animo buono, é la morte d' Anflarao , il quale (e augure e re, come il Ramnele, e 1' Anio, e TEleno, e l'Enea dì Vir- gilio (2) ; e come tutti i re primi, che erano sacerdoti, siccome signi- fica anco il Melchisedech della Genesi) abborriva dalla tirannide di Creonte (3), appunto come la figlia di Tiresia , Manto, dalla tirannia di Creonte si salva con l'esilio, con 1' esilio eh' è padre sovente di Slati novelli di nuove idee. E co>ì collegansi , non a caso, le tre storie in questo Canto toccale, di Tiresia e di Manto e d' Anflarao, il quale era, a detta di Cicerone, avuto da' posteri per iddio ("4), come Romolo ; senonchè questo rapilo di sopra e quel'o di sotto. Tutte e tre tradizioni di Tebe, città fondata da gente più aflìne agli Slavi che a' Greci, e che per Manto diventa consanguinea di Mantova, onle ap- parisce afnnilà singolare Ira Virgilio e Anllone ed Orfeo. E perchè vedasi insieme quello che Dante tolse da Stazio, e al suo solilo in breve spazio condensò , recheremo de' molllssìmi versi , in cui si di- stende il pun!o di quella subita morte, taluni de' più notabili . . . Non arma manu, ìion frena remisit : Sicut erat , rectoa deferì in Tartara currus : Respexilqne cadens codum, cnmpumque coire (5) Ingemuit, donec levior distaulia mrsus Miscuit arra trernor , lucemque exclnsit Averno. — l'I suMtus vates pallenlibus inridit (6) ambris.... Al Ubi qiio'i (inquii) manes qui limite prneceps Non licito per inane ruis ? (7) — Subii ille minantem, Jnni teuìiis visu, jani vanescenlibua armis , .Tarn pedes: extinrto tamen interceplus in ore Augurii perdurai ho- «OS, obscuraciue fronti Villa tnanet , ratmimqne tenet morienlia oli- vae.... Subilo me turbine mundi mediis e millibus hausit Nox tua (8). Quae mihi mens, dum per cava viscera terrae Vado din pen- dens ? et in aere volvor aperto? Ihi miìii nil ex me sociis patriaeque reliclum estj Vel captum Thebis : non jam Lernaea videbo Tecla,, nec attonito saltem cinis ibo parenti. Non tumulo, non ignemiser , lacry- misque meorum Produclus, loto pariter libi funere veni. Notate altresì nel lunghissimo passo di Lucano, e assai men poetico che quel di Stazio, il verso che dice dell' augure Arrunte : Atqueiram (1) Eli., Vili. (7) Qui parla Plutone. Dante che (2) .¥.n.. II, MI, IX, XII. vuole rif)rovarc l'augure e quasi scher- (3) Slat.,Vll : iN'onf)crpc«4MrcCrfo/i- nirlo, fa dire a'guerreggianti : Dove lis Impervi. rui ? {'ir) De Divinai., 1. 40. (8) Fino a Minós,che aaxcherluno af- (ó) A c»i S' apersr, agli occhi de' /<?»Ta. Anche Stazio nel caso d' Aidìarao Tibivì, la terra. rammenta Minosse j fra lo tante altre (G) ^ non restò di ruiitare a ralle. cose,