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MI AVVICINO PIANO,
COME UN ASTRONAUTA
CHE RIENTRA SULLA TERRA.
O FORSE UN ALIENO
CHE VI SBARCA PER LA PRIMA VOLTA.



Credo sia evidente che non esiste fantascienza più visionaria, fantasia più azzardata della realtà stessa. L’esistenza in sé è il pensiero più destabilizzante umanamente pensabile. L’uomo tende a dimenticarsene, dandola per scontata e collocandone i confini nel suo ristretto campo intellettuale e sensoriale.
Da questa visione antropocentrica, limitata e parziale, nasce l’illusione della rappresentazione `realistica’. Nella sua accezione comune, è realistico ciò che è simile a quanto è restituito dai sensi di un essere umano sano. In questo senso, restando in ambito visivo, strumenti di presa diretta come la fotografia e il video sono i mezzi che più si confanno ad una rappresentazione `realistica’ della realtà. Ma è pura illusione.


La fotografia è a tutti gli effetti un linguaggio, il cui alfabeto è composto dall’apparenza visiva del mondo. In una società prevalentemente visiva, la fotografia è tra tutti i linguaggi forse il più diretto, a causa della riconoscibilità dei soggetti e l’immediatezza della fruizione, in grado di scavalcare l’analisi razionale rivolgendosi a una percezione di tipo empatico.

Per tale motivo la fotografia è strumento privilegiato di propaganda, usato e abusato da pubblicitari, giornalisti, politici, che con immagini fotografiche prodotte a tirature industriali invadono luoghi pubblici e privati. Immagini stereotipate, immagini simbolo, immagini icona, vengono utilizzate come mezzi per raggiungere uno scopo.
Da decenni, e in Italia in particolare, è tramite la fotografia e il video che si promuovono usi e costumi che plasmano identità individuali e collettive. La centralità dell’immagine e del linguaggio video-fotografico nella definizione individuale e sociale di ognuno è il più delle volte una centralità acritica, recepita e utilizzata con un senso di ineluttabilità dalla maggioranza della popolazione, come un necessario adattamento a un nuovo ecosistema. Credo non sia possibile avvicinarsi alla complessità del contemporaneo né affrontare un discorso sulla fotografia senza contemplare questi elementi.
Le immagini che saturano spazi pubblici e privati parlano il linguaggio del potere, condizionando con forme e contenuti standardizzati i pensieri e i comportamenti di ognuno. Alla riproduzione seriale di tali fotografie, si accompagna, per contro, una moltiplicazione esponenziale dei punti di vista, dovuta alla diffusione capillare e abbordabile della tecnologia digitale. Ma le ripercussioni che l’immaginario delle fotografie `dominanti’ ha sull’immaginario personale di ognuno sono evidenti nella maggior parte degli archivi fotografici personali.


La fotografia accompagna il mio lavoro da sempre, anche se può essere vista come un capitolo un po’ a parte. Ho sempre percepito la macchina fotografica alla stregua di un taccuino e il più delle volte che mi capita di prenderla in mano è per registrare scorci che, come note o appunti, mi rimandano a qualcos’altro. Quando mi sembra che una fotografia `funzioni’ è solitamente perchè io per prima non sono in grado di definire cosa sia questo `qualcos’altro’.


Non penso alla fotografia come uno strumento di rappresentazione, riproduzione o documentazione della realtà, ma come ad un mezzo in grado di generare esso stesso realtà.


Ho sempre scattato in digitale per una questione di velocità e, non ultimo, per un fatto ecologico.

Dell’analogico mi affascina il rapporto con la materia, con le sostanze, suggestivo come scolpire o dipingere.
Il mio lavoro è pervaso da un tentativo di rivelare l’aspetto straordinario dell’ordinario, partendo dal presupposto che, come scrivevo all’inizio, lo stesso concetto di `ordinario’ parte da una cecità di base nei confronti dello stesso esistere. Trovo molto interessante la possibilità di suggerire questa idea attraverso un linguaggio ritenuto `realista’ per eccellenza come la fotografia.
Oltretutto, in quella che sempre più mi appare come una dittatura delle immagini, cercare altre vie diventa per me anche una forma di resistenza, un modo di mantenere e proporre un’individualità dello sguardo, e quindi un pensiero indipendente.