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capitolo nono 269

sconvolgono la superficie delle acque, e fanno sentire il loro formidabile impulso dal polo all’equatore. Al dire dei marinai non v’era mai stato inverno così fecondo di naufragi. Da ben quattro mesi regnavano venti desolatori. L’Oceano Germanico non era più navigabile: le navi soffrivano nei porti bloccate dalla tempesta. Venticinque navi spagnole erano perite sulle coste di Fiandra. Dappertutto le spiagge erano piene di avanzi di navi naufragate.

Al primo fare del giorno, da mezzo una specie di nebbia prodotta dal rompersi delle onde e dalla copia dalla spuma sollevata in aria in vista umida polvere, l’ammiraglio riconobbe la rupe alta di Cintra, vicina al Tago. La costa del Portogallo, di un accesso sempre difficile per un mar grosso, e pericolosissima in caso di tempesta. Tuttavia, quantunque nessun piloto del porto potesse andare a lui, l’ammiraglio si sforzò di entrare nel fiume, perocchè non aveva altra speranza di salute, che penetrandovi. Gli scogli di quelle rive, coperte allora interamente dalla gonfiezza delle onde e dal cadere della spuma, ingannavano l’occhio: una forza irresistibile portava la Nina contro gli scogli de’ bassifondi e la respingeva dall’imboccatura, d’onde l’allontanavano, altresì, i flutti del fiume ingrossati dalle pioggie e sollevati da venti contrari: sarebbesi detto che una tenebrosa potenza ne addoppiasse il furore per impedire che approdasse la sciagurata nave, destinata a perire a vista del porto.

All’aspetto del suo imminente naufragio, gli abitatori della città di Cascaës, posta sull’imboccatura del Tago, corsero alla chiesa; accesero ceri, pregarono tutta la mattina per l’anima de’ marinai della povera piccola caravella, che sembrava già diventata la preda di un mare inesorabile; e quando, per l’assistenza di Dio, l’ammiraglio fu entrato nel fiume, l’intera popolazione corse alla riva, tenendo quasi miracolo ch’ei si fossero salvati da quella creduta inevitabile perdita.