Pagina:Cuoco, Vincenzo – Platone in Italia, Vol. I, 1928 – BEIC 1793340.djvu/189

Da Wikisource.

lo allontana da quella intemperanza di riso, che rende tanto spesso inutili le lezioni della sapienza. Tutto ti ricordava un’idea grande, un’idea che non si dovrebbe obbliar mai; ma questa idea non avea in sé nulla né di terribile né di schifoso. Finalmente Archita monta sulla tribuna ed incomincia a recitar quell’orazione che io ti trascriverò intera. L’uomo, di cui io vi ragionerò, e che fu giá mio amico e vostro, è oggi nelle regioni dei beati, in compagnia di Pittagora, di Zenone, di Parmenide, di Ocello e di Socrate; in compagnia de’ savi e de’ giusti di tutti i luoghi e di tutte le etá; contemplando scoperto quel vero, di cui un debole raggio basta a guidarci e confortarci tra le tenebre e le miserie di questa vita. Egli ha incominciato veramente a vivere dal di che ci fu tolto; e mi par di vederlo dal seno della sua felicitá rivolgersi a noi, suoi amici, e, quasi compassionando il nostro misero stato, invitarci, affrettarci ad una vita migliore. Che importerebbero a Filoiao i nostri pianti e le nostre lodi? Tramandiamo a coloro che non hanno avuto il bene di conoscerlo gli esempi delle sue virtú; conserviamole vive ne’ nostri petti; narriamole ai figli nostri. Forse un giorno vaieranno a ritrarre qualche misero dal sentiero del vizio e della viltá; ed ecco ciò che possa veder di piú grato chi ormai piú non vive che nella contemplazione dell’ordine eterno di tutte le cose. L’istruzione di coloro che debbono ancor nascere deve essere il primo oggetto di chi loda coloro che piú non sono. I tempi, ai quali la necessitá ci ha riserbati, sono difficili. L’etá passata ha corrotto il nostro cuore; questa, in cui viviamo, minaccia di corrompere nei nostri figli anche la mente. Noi abbiam perduto l’amore della virtú; essi corron pericolo di non averne neanche la norma. Di giá serpe nelle tenere menti dei giovani, simile alla rubigine del Ionio, tanto fatale alle nostre piante, una nuova dottrina corrompitrice di ogni nobiltá di animo; e l’uomo del volgo incomincia giá a separar la virtú dalla felicitá, e, rammentando le misere sorti di Zenone, di Filoiao, di Socrate, domanda a se stesso: — Qual è dunque il premio della virtú? — r