Pagina:Cuoco, Vincenzo – Platone in Italia, Vol. II, 1924 – BEIC 1793959.djvu/317

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Se ciò fosse vero, sarebbe impossibile che un secolo e mezzo dopo avessero saputo tanto. Non vi sono che circa centocinquanta anni tra Talete e Platone: il primo ignorava i postulati della geometria piana; il secondo si era elevato fino alle sezioni coniche ed all’analisi. Tanto progresso non si può fare in si breve tempo per solo sviluppo intrinseco di un popolo. Noi stessi, ad onta degli aiuti che ci eran rimasti dall’antichitá, noi stessi, dopo la seconda barbarie, non ne abbiam fatto uno eguale. Imperciocché, perché una scienza progredisca molto, non basta conoscere una, due, cento di quelle veritá che la compongono. Questo è saper la storia della scienza e non giá la scienza istessa. Siccome tutto il progresso di una scienza consiste nel far si che da due veritá note se ne derivi una terza ancora ignota, cosí il progresso sará tanto piú rapido quanto maggiore sará la facilitá di paragonar tra loro le veritá isolate. E, a render piú facile questo paragone, è necessario averle tutte presenti; aver de’principi generali, onde l’associazione sia piú stretta, talché, riprodottane nella nostra mente una, si riproduca anche l’altra; aver metodo, onde i giudizi ed i raziocini sietio e piú spediti e piú sicuri; e finalmente aver lingua tecnica, senza la quale non vi possono esser né metodi né principi. Ecco ciò che costituisce la scienza; ciò che nel tempo istesso è cagione e del suo progresso e della sua diffusione, imperciocché queste due cose vanno sempre insieme. Quando le scienze sono ristrette, sono fanciulle, ogni proposizione fa scienza da sé ed apparisce isolata da ogni altra. Trovi allora qualche proposizione di geometria o qualche metodo algebrico registrato in un libro di «segreti». È facile osservarlo in tanti libri di tal natura che ancora abbiamo, avvanzi de’ secoli d’ignoranza. E, dovunque ciò si vede, deve conchiudersi che la veritá non è stata scoperta in forza di proprio raziocinio, perché allora avrebbe abito scientifico e rapporto con tutte le altre veritá della scienza; ma bensí imparata per tradizione, sia che questa venga da un altro popolo, sia che venga da una parte della nazione, per qualche ragione accidentale, piú colta dell’altra. Allora è facile trovare in una stessa nazione una sublime veritá allato ad un errore puerile, la conseguenza di una acutissima osservazione a fianco della piú crassa ignoranza. Tale è il ritratto, che ci fanno gli storici, della Grecia nell’epoca di Talete. Tale è stato anche il nostro nelli secoli di mezzo. Qual paragone tra la dottrina di Dante e quella de’ suoi contemporanei?