Pagina:Cuoco, Vincenzo – Scritti vari- Periodo napoletano, 1924 – BEIC 1796200.djvu/306

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mi si è promessa una catedra all’organizzazione del liceo. Sarebbe per me e piú comoda e piú lucrosa. Ma lo stato attuale è tale, che noi dobbiam sussistere alla giornata, perché non sappiamo se domani saremo nello stesso stato in cui siamo oggi... XIV. — A Diodato Corbo. — [Milano, 7 gennaio 1802]. — Non ti pare che io era profeta quando in faccia a Scipione La Marra mi dissi cisalpino, e profeta anche piú grande quando diceva tanto male de* francesi? Eccomi dunque cisalpino, perché in Milano, ed odiator de’ Galli, quale lo era nel ’93, nel ’94, nel ’95, nel ’96, nel ’97, nel ’98, e finalmente in Capua nel ’99. I miei sentimenti sono eterni. Tra questi sentimenti, l’amicizia che ho per te è dunque eterna egualmente; ed infatti, dopo tre anni, a seicento miglia di distanza, io ti amo e ti amerò sempre come ti ho amato dal primo giorno in cui ti ho conosciuto. Ho ricevuto sempre i tuoi saluti e, ogni volta che ho potuto, ti ho fatto pervenire i miei. Non ti ho scritto perché non sapeva ove indirizzar la lettera, né era sicuro se lo scriverti fosse per te senza pericolo. Questa è la differenza che passa tra il servir Dio ed il servir gli uomini. Iddio vede il cuore; gli uomini giudicano dall’apparenza, e coloro che sono apparsi una volta rei continuano sempre ad esser creduti tali! Il nostro Giulio ti dará questa lettera e ti dirá a voce tutto ciò che mi riguardi e che so che t’interessa. Io invidio la sua sorte, perché avrá il piacere di rivederti e di abbracciarti. Io qui non provo che un vuoto immenso: la mia vita non è che una continua noia. Ad ogni momento mi si presentano al pensiero i luoghi che mi hanno visto nascere, gli amici che hanno formato l’amicizia della mia gioventú, e tutte queste memorie non sono al certo memorie di piacere. Io mi veggo solo, e non mai ho trovati piú veri i versi di Euripide sull’emigrazione. Un infelice che non ha patria non ha piú amici e, non avendo amici, non ha piú gioia sulla terra. Che ne sará di me? Chi sa se piú ci rivedremo e quando? Io non lo so: so che la rivoluzione, che l’emigrazione non è fatta per gli uomini onesti; so che io doveva morir di febre al Castelnuovo, poi impiccato al Castel dell’ Uovo, poi doveva esser ucciso dai briganti di Provenza, poi dai barbetti del Piemonte, poi dovea morir di disagi, di incomodi, di fame, di peste, di guerra... Non sono morto ancora. Chi sa? Anderò a morir impalato in Costantinopoli o relegato in Siberia. «Durate — dice Virgilio — */ vosmef rebus servate secundis».