Pagina:Cuoco, Vincenzo – Scritti vari- Periodo napoletano, 1924 – BEIC 1796200.djvu/91

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Profítebor *; né lo diceva per artificio retorico, ma davvero, come quegli che giá progettava la riforma della giurisprudenza romana. Riportiamo gli studi della giurisprudenza alla loro puritá. Non avremo mai giureconsulti se non istruiremo i giovani negli studi preparatòri della giurisprudenza. La cognizione profonda della lingua latina ed italiana, della storia, della logica sono indispensabili.

Il giureconsulto ha un bisogno maggiore degli altri della lingua latina, perché il fonte comune di tutte le leggi dell’Europa è scritto in questa lingua. Ha un bisogno maggiore della lingua italiana, tra perché alle funzioni di un valente giureconsulto è sempre unita quella di oratore <», tra perché il soggetto, del quale egli si occupa, esige esattezza e proprietá di lingua infinita. In ciò erano ammirabili i giureconsulti romani. Leibnizio osserva ed ammira con ragione che i frammenti dei romani giureconsulti, quanti son quelli che compongono le Pandette , sembrano tutti scritti da un’istessa mano. Qui incominciano gli studi propri alla giurisprudenza. ’ Che sono mai le leggi? Esse sono i principi della ragione universale applicati alle circostanze particolari di un popolo. I primi formano il soggetto della giurisprudenza universale; le seconde sono esposte dalla storia particolare della nazione. Studiar la giurisprudenza positiva, senza i presidi della giurisprudenza universale e della storia, è lo stesso che sapere le parole della legge ignorando il suo spirito (*>.

Leibnizio, l’uomo appunto che piú poteva apportare e piú ha apportato de’ lumi filosofici nella riforma degli studi della giurisprudenza, distingue in quattro parti lo studio delle leggi. La legge è un fatto, in quanto è il comando del legislatore: la cognizione semplice di questo comando forma il soggetto (t) «lurisconsuttus ariti oratonae ignarus nihil est nist leguleius caulus et mutus, praeeo actionum, carttor formularum, auceps syllabarum». Ad Herennium, II. 55( 2 ) «Verbo legis tenere, non vim ac potestatem».