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il maestro di mio padre 215

una finestra molte voci di ragazzi, che leggevano insieme, compitando. Il vecchio si fermò e parve che si rattristasse.

— Ecco, caro signor Bottini, — disse, — quello che mi fa pena. È sentir la voce dei ragazzi nella scuola, e non esserci più, pensare che c’è un altro. L’ho sentita per sessant’anni questa musica, e ci avevo fatto il cuore... Ora son senza famiglia. Non ho più figliuoli.

— No, maestro, — gli disse mio padre, ripigliando il cammino, — lei ce n’ha ancora molti figliuoli, sparsi per il mondo, che si ricordano di lei, come io me ne son sempre ricordato.

— No, no, — rispose il maestro, con tristezza, — non ho più scuola, non ho più figliuoli. E senza figliuoli non vivrò più un pezzo. Ha da suonar presto la mia ora.

— Non lo dica, maestro, non lo pensi, — disse mio padre. — In ogni modo, lei ha fatto tanto bene! Ha impiegato la vita così nobilmente!

Il vecchio maestro inclinò un momento la testa bianca sopra la spalla di mio padre, e mi diede una stretta alla mano.

Eravamo entrati nella stazione. Il treno stava per partire.

— Addio, maestro! — disse mio padre, baciandolo sulle due guancie.

— Addio, grazie, addio, — rispose il maestro, prendendo con le sue mani tremanti una mano di mio padre, e stringendosela sul cuore.

Poi lo baciai io, e gli sentii il viso bagnato. Mio padre mi spinse nel vagone, e al momento di salire levò rapidamente il rozzo bastone di mano al maestro, e gli mise invece la sua bella canna col