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304 Cuore infermo

rompa. Gettava in un cantuccio i fiori delicati, dal prezzo molto alto, imitazione finissima della verità, che avevano adornato i suoi abiti. Giovannina li raccoglieva con una grande premura, e la interrogava tacitamente.

— Non li voglio — rispondeva Beatrice — portali via.

Cambiava acconciatura quattro volte al giorno. Nel suo gabinetto di toletta si soffocava fra le stoffe, la biancheria ricamata, le trine che si trascinavano sul tappeto, l’odore delle boccette sturate. Ordinò un costume montenegrino, tutto coperto di monetine d’oro, per fare una sorpresa a Marcello. Si era fatta fare una miniatura di suo marito, tutta circondata di perle, e la portava sotto l’abito, sul petto, col volto sulla pelle, con le borchiette d’oro che le producevano delle piccole cicatrici, quando l’abito era troppo stretto. Ella provava un piacere delizioso in quelle punture, quando qualche macchiolina di sangue compariva sulla batista. Lo chiamava il suo cilicio.

Nei suoi appartamenti, ora, tutto si cangiava.

— Ma queste stanze sono vuote! — esclamava ogni mattina, quando faceva il suo giro.

E si metteva a pensare quali e quante ricchezze dell’arte e dell’industria avesse potuto accumulare per riempiere quei grandi vuoti che le davano la paura della solitudine. Con Marcello andavano fuori a visitare gli studi artistici, i grandi emporii di belle arti, i grandi magazzini di mobilio. E i bronzi fiorentini, dalle patine di verderame, i bronzi moderni, bruni, quasi neri, lucidi, le lacche fragilissime giapponesi, le delicate intarsiature di oro, d’avorio, i cristalli di Murano, così nitidi che non dànno un’ombra, le sculture in quell’oscuro legno di quercia, così sobrio, così elegante, i quadri, le statuette, le porcellane, andavano a popolare tutti gli angoli del salone e dei salotti. Beatrice era presa dalla