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334 Cuore infermo

chiusa, dove Beatrice era andata su e giù per le strade di Napoli, spandendovi le sue ricche acconciature, mettendo nel lato destro un poco della sua persona. Erano gli stessi cavalli roani guidati da Francesco, il solito cocchiere. Dietro la carrozza un accatastamento di fiori tutti bianchi; i sedili, i tappeti ne erano cosparsi. Dalle pareti pendevan corone di rose bianche, grandi triangoli, cascate di fiori candidi, legati da nastri di raso bianco, su cui era ricamato a lettere d’argento: Beatrice. La bara, tutta d’argento, andava esattamente da un sedile all’altro, appoggiata solidamente a capo ed ai piedi, senza che si potesse scuotere, quasi che si fosse presa la misura giusta. Era coperta di fiori, vi scompariva sotto. Ma era tutta pura, senza ornamenti, come di un pezzo solo. Sulla placca superiore una grande croce si rilevava; sotto, il nome in lettere rilevate: Beatrice. In un angolo del sedile di fondo era rincantucciato Marcello. Si stringeva alla parete per dar posto alla bara. Poggiava la testa sopra un cuscinetto di rose bianche della parete. Una mano era abbandonata, aperta sull’argento della bara, donde gli veniva una grande frescura. Ad ogni sbalzo della via egli tremava, s’inchinava sovr’essa quasi volesse proteggerla con le braccia. Ogni tanto si curvava e la baciava tacitamente, lungamente, al luogo dove dovevano essere le labbra. Senza che avesse pianto, gli occhi erano gonfi e rossi di lagrime non sparse, con uno sguardo errante; la barba di due giorni dava un’ombra bruno-azzurrognola alle guancie. Provava dei dolori acuti nel cranio, dei dolori infuocati, come se glielo avesse scoperchiato e vi avessero versato del piombo in fusione; tolse il cappello per provare un alleviamento: non aveva dove posarlo, lo teneva fra le gambe. Si muoveva con molta lentezza, con grande precauzione, per timore di urtare la bara.